Dopo averlo definito in più occasioni “L’Hitler del nostro secolo”, Enes Kanter è tornato a parlare del presidente turco Erdogan, salito ancora una volta agli onori della cronaca per il recente bombardamento a nord della Siria di prevalenza curda. Il giocatore dei Boston Celtics da anni non rientra più nel suo paese natio dopo essersi pubblicamente schierato contro il leader della Turchia. Per contro, il governo di Ankara ha tolto il passaporto al connazionale e spiccato un mandato di cattura internazionale. Lo scorso gennaio il centro non ha potuto nemmeno partecipare all’NBA London Game per paura di essere raggiunto da persone vicine ad Erdogan. Nonostante tutto questo, Kanter non ha perso la forza per ribadire la sua contrarietà attraverso un’intervista rilasciata al “Boston Globe” e riportata da Sky Sport:
“Come posso restare in silenzio? Ci sono decine di migliaia di persone in prigione in Turchia, tra cui professori, dottori, giudici, avvocati, giornalisti e attivisti. Sono rinchiusi soltanto perché hanno detto di non essere d’accordo con Erdogan. Centinaia di bambini stanno crescendo all’interno di celle strette e anguste al fianco delle loro madri. Democrazia vuol dire avere il coraggio e la libertà di parlare, non dover essere rinchiusi in galera per questo”.
Il turco, poi, ha spiegato che i tentativi di intimidazione da parte del governo di Ankara si presentino anche sul suolo americano, come il caso di qualche settimana fa fuori da una moschea proprio a Boston:
“Andare a pregare in moschea il venerdì non è semplice. Spesso mi ritrovo accerchiato da persone che mi urlano contro “Sei un traditore”, come accaduto qualche giorno fa. Erano dei sostenitori di Erdogan e non è stato un incidente isolato nel suo genere. Lo scorso mese infatti alcuni ministri turchi hanno tenuto un incontro pubblico con la comunità presente a New York, in cui hanno spiegato i tentativi di zittirmi e di cancellare gli eventi che sto organizzando negli USA. I ministri hanno iniziato ad aizzare la folla contro di me e uno dei partecipanti ha indicato il nome della moschea che frequento a Boston. Per quello non mi sono sorpreso quando ho trovato quella gente lì ad aspettarmi. Il consolato inoltre continua in tutti i modi a convincere le autorità statunitensi a mettermi un bavaglio, a fermare la mia opera di dissenso. Più cresce la pressione su di me però, più alzo la voce. Le minacce non sono un deterrente per me, stanno sprecando il loro tempo”.
In tutto questo Kanter ha trovato un porto sicuro come gli Stati Uniti d’America, in cui la sua vita e la sua carriera procedono al netto di episodi come quelli raccontati nelle righe precedenti:
“Sono grato dell’opportunità che mi è stata data di poter vivere negli USA, questa nazione mi ha dato tantissimo, sin da quando sono sbarcato qui da ragazzo. Per questo mi sento in dovere di dover restituire qualcosa alla comunità. Per tutta l’estate ho girato in lungo e in largo: 50 camp di pallacanestro in 30 stati federali, provando a trasmettere messaggi positivi ai ragazzi. Il basket è la mia via di fuga, il posto in cui tutti continuano a essere gentili e riconoscenti nei miei confronti. Devo ringraziare tutti, compresi i politici, i giornalisti, gli attivisti e i tifosi che mi danno forza in questo periodo complicato. Mi spingono ad andare avanti, mi danno una carica in più anche quando scendo in campo. Ho la fortuna di essere sotto i riflettori e di sfruttare questa piattaforma per promuovere i diritti umani, la democrazia e la libertà personale. È una cosa molto più importante del pallacanestro. Essere il portavoce di questi ideali per un turco vuol dire rischiare la prigione e la violenza da parte dei militari. Mi hanno chiamato terrorista, hanno chiesto all’Interpol di arrestarmi. Starei marcendo in galera se fossi tornato in Turchia. Restare lontano dalla mia famiglia è un sacrificio enorme, una sfida complicata da vincere. Ma le cose buone non ti vengono mai regalate, non sono mai semplici da conquistare. Mai”.
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