Il sogno di Francesco Alfier, trentenne padovano nello staff dei Los Angeles Clippers come international scouting analyst, brilla alla luce del sole californiano e si alimenta della razionalità di chi ha saputo unire la passione per il basket con quella per la statistica, trasformando il tutto in una professione da esercitare al massimo livello. Alfier, laureato in scienze statistiche, un passato alla Reyer Venezia, club che ebbe l’occhio lungo di puntare su un data analyst a tempo pieno, è negli Stati Uniti dal 2015, dove ha iniziato con un master in management dello sport alla California State University Long Beach (nota anche come Long Beach State) e uno stage ai Clippers, trasformatosi poi in un impiego vero. Francesco oggi lavora a pieno titolo nel front office di una delle migliori franchigie NBA, protagonista di un eccitante processo di crescita che passa senza mezzi termini dalla caccia al primo titolo e dalla realizzazione della nuova arena a Inglewood.
«Qui si lavora per vincere – spiega Alfier da L.A., raggiunto via Skype a due giorni dal “derby” natalizio con i Lakers – e vincere significa arrivare alle Finals e conquistare quattro delle sette partite della serie. Punto. L’obiettivo è questo. Steve Ballmer tiene molto a mantenere alto il livello di competitività: siamo una squadra di tante persone, ciascuna con il proprio ruolo, che lavora con razionalità e profonda volontà, senza invidie o rivalità interne. Ognuno dà il proprio contributo all’obiettivo finale».
Francesco, cosa fa esattamente un international scouting analyst?
Lavoro nella facility di Playa Vista, dove si allena anche la squadra. Da circa un anno sono passato dal dipartimento Basketball Analytics, che oggi si chiama PSR (Planning, Strategy and Research), allo scouting. Semplificando, oggi faccio molto meno analisi statistica e mi occupo più di video e scouting di giocatori internazionali. La parte più dispendiosa del mio lavoro, e del lavoro di ogni buon dipartimento di scouting, riguarda la gestione delle informazioni: visioniamo un numero enorme di giocatori, gestiamo i database, organizziamo i report che gli scout, dagli Stati Uniti e da tutto il mondo, inviano continuamente, selezioniamo le immagini da mostrare nei video per chi dovrà prendere decisioni. Controllo, cura dei dettagli, raziocinio sono fondamentali: io e un mio collega siamo il trait d’union tra il front office e gli scout. La mia mansione è quella di fare ordine, perché dove ci sono tante informazioni il disordine si crea naturale. Ma chi prende le decisioni non è lo scout, non è l’analista: è il general manager. E ogni volta che il general manager si siede al tavolo con lo staff, pretende informazioni pronte, dettagliate e complete.
Rispondi direttamente al GM dei Clippers?
Al vertice delle Basketball Operations ci sono il presidente Lawrence Frank e il general manager Michael Winger. Io normalmente riferisco all’assistant GM Trent Redden, ma anche a molte altre figure, come Fabrizio Besnati, direttore dell’international scouting o Ermal Kuqo, che tra l’altro ha giocato in EuroLeague e che ricopre il ruolo di international scout. Inoltre, io continuo a essere il referente del PSR per tutto ciò che ha che fare con lo scouting, quindi continuo a riferire anche a Jud Winton, vice presidente per Research and Analytics. Ogni dipartimento ha almeno un referente per i rapporti con gli altri dipartimenti, perché tutto deve essere coordinato. Anche i contatti con Doc Rivers, il coaching staff e la squadra sono frequenti, intanto perché lavoriamo tutti al training center, ma soprattutto perché si insegue lo stesso obiettivo.
In questi anni come si è evoluto il tuo lavoro all’interno del team?
Sono entrato da semplice statistico, ma andando avanti i miei responsabili si accorgevano che una figura come la mia non poteva limitarsi soltanto all’analisi. Così mi hanno coinvolto sempre più nel lavoro con i video e nel coordinamento delle informazioni provenienti da overseas, cioè dal basket europeo o esterno agli USA. In generale, è l’approccio a essere cambiato in questi ultimi anni: analytics è diventato una definizione riduttiva, perché non ci si limita più alla semplice analisi e valutazione dei giocatori. Gli statistici fanno strategia, che significa aiutare il front office e il coaching staff a preparare un piano d’azione, integrando i vari dipartimenti, per affrontare le “scadenze fisse” della stagione NBA: la trade deadline di febbraio, il Draft, per non parlare della free agency, in cui la scorsa estate un po’ di rumore i Clippers lo hanno fatto… Tutte le franchigie lavorano a questi appuntamenti con mesi o anni di anticipo. In NBA puoi fare pianificazione vera.
Mentre in Italia o in Europa siamo lontani anni luce…
Non è vero che in Italia e in Europa non ci sia attenzione verso le statistiche nel basket, o che gli statistici siano ostracizzati. È semplicemente una questione di risorse. Non ci sono soldi per allestire un dipartimento analytics come in NBA. Ci sono club, in tutte le categorie, che hanno difficoltà a pagare i giocatori, quindi è fin troppo facile risparmiare sul resto. La mia non è una critica, solo un’osservazione. In Europa non puoi vivere di statistica applicata al basket, a meno che tu non lavori per un’azienda esterna che offra servizi di questo tipo.
Quando hai capito che potevi mettere insieme la passione per dati e numeri con l’amore per il basket?
Ho sempre voluto entrare nel mondo della pallacanestro professionistica attraverso le statistiche, seguendo quello che poi, in questi anni, si è rivelato un percorso innovativo per lo sport. Mentre studiavo all’università di Padova, dove mi sono laureato nel 2011, ho svolto uno stage per Giampiero Hruby, attuale proprietario di Superbasket, durante il quale creai un indicatore statistico per valutare giocatori basato sulle advanced stats. Dopo la laurea ho collaborato come addetto alle statistiche con la Reyer Venezia e altre società. Questo lavoro continuava a piacermi e la Reyer mi ha offerto un contratto per entrare nello staff, non più da esterno. Sono rimasto lì quattro anni. Non mi occupavo solo dello scouting, ma anche di match analysis finalizzata allo studio dei prossimi avversari. Un’esperienza fondamentale.
Come hai avuto la possibilità di varcare l’oceano?
Collaboravo con l’Adidas Eurocamp di Treviso e con Michele Gherardini, così ho stretto contatti con numerosi scout e allenatori. Uno di essi mi ha proposto l’opportunità di un internship ai Los Angeles Clippers. Così ho messo da parte i soldi e nel 2015 mi sono iscritto a un master in management dello sport a Long Beach State, proprio mentre iniziavo lo stage nell’organizzazione dei Clippers. Inoltre, per tre mesi, ho fatto il volontario alla squadra di basket del college, altra splendida esperienza. Dopo due anni da stagista ai Clippers, è arrivato il full time.
Dall’esterno, le franchigie NBA appaiono realtà proiettate nel futuro e basate su una fortissima etica lavorativa. Dall’interno è lo stesso?
Confermo, si lavora tanto, giorno e notte. Sono cinque anni che non torno a casa per Natale. E non è nemmeno l’impiego più remunerativo a cui io e altri colleghi potremmo aspirare. Ma nessuno si lamenta, perché facciamo quello che ci piace al massimo livello. Non sento il peso della stanchezza, l’amore per il basket è più forte di tutto. Qui in NBA siamo “drogati” del nostro lavoro, lo amiamo troppo e ci pagano per farlo: questo è il top e non si discute. È una motivazione fortissima, che va al di là del proprio compito. Il mio è gestire il flusso informativo degli scout, preparare i video sui giocatori internazionali, mettere in condizione il GM di prendere decisioni importanti attraverso le informazioni dettagliate che provengono dal lavoro degli scout e dall’analisi statistica. Grazie ad esse, il GM dispone di strumenti di valutazione sempre più completi e affidabili.
In fin dei conti, le squadre NBA sono aziende votate al profitto. Quale ruolo ricopre il marketing?
Vuoi che il tuo sport generi profitto? Allora devi proporre un evento di alta qualità e appetibile dal punto di vista commerciale. Per rendere l’idea, ai Clippers abbiamo 60 persone impiegate nelle Basketball Operations e ben 200 nell’area business. Una franchigia NBA è un’azienda che deve vendere un prodotto di intrattenimento 82 volte l’anno in cinque mesi, più i Playoffs, più la Summer League. I biglietti costano, ma l’evento diverte anche chi non è esperto di basket, ogni partita è un’esperienza. Per fare tutto ciò, servono soldi e personale adeguato, pianificazione e razionalità. E il business va sempre coordinato con la parte sportiva: è pur sempre pallacanestro e se la squadra non vince, le cose diventano più difficili.
I Clippers puntano al titolo. Si avverte questa pressione anche negli uffici?
Siamo una contender, ma nello staff viviamo tutto in maniera piuttosto tranquilla. Sì, è vero, qualche pressione dall’esterno, dettata dalla posta in palio, può esserci, ma pensiamo solo a fare bene il nostro lavoro, ciascuno nel proprio ambito. L’approccio è sempre razionale: quando si commette un errore, perché può succedere, una scelta razionale si può giustificare, invece una scelta dettata dall’emotività e dalla pressione no. Essere razionali è la risposta. Per il resto, ci aiuta l’organizzazione: ogni dipendente ha un ruolo ben dettagliato e posso garantire che l’ambiente di lavoro è assolutamente positivo, stimolante, aperto al confronto con esperienze e culture diverse, accogliente e inclusivo anche verso l’ultimo arrivato, come potevo essere io, un ragazzo di Padova “malato” di basket e statistica.
Come vivete la rivalità con i Lakers?
Ogni membro dello staff è consapevole che noi siamo i Clippers ed è un concetto che lo stesso Doc Rivers ripete sempre nelle riunioni: non abbiamo ancora vinto nulla e ci stiamo confrontando con franchigie dalla tradizione vincente come appunto i Lakers o anche Houston, per non parlare, almeno fino alla scorsa stagione, di Golden State o San Antonio. Siamo sempre stati considerati la seconda squadra di Los Angeles. Un team che però, con fatica e grazie al cambio di proprietà, alla ristrutturazione della franchigia, alla maggiore capacità di investimento, ora è in condizione di puntare al massimo. Questo ci unisce ancora di più. Credo infine che con la firma di Kawhi Leonard e Paul George abbiamo contribuito a equilibrare la lega, dal momento che più squadre si sono mosse per assemblare i propri big two.
Che importanza ha avuto la tua esperienza al college?
Un passaggio molto interessante, perché ti confronti con la realtà, la NCAA, che più di ogni altra produce giocatori. Di questi, giusto una sessantina ogni anno arrivano in NBA, gli altri in gran parte vanno a giocare in Europa o altrove. Le squadre di college, come numero di dipendenti, mi ricordano un po’ quelle italiane di Serie A, ma dispongono in più di tanti studenti che accettano di fare i volontari non retribuiti, ricoprendo molte mansioni solo per senso di appartenenza e amore del gioco. Poi l’atmosfera del campus, le arene eccezionali, l’evento-partita: la NCAA, anche in un college di medio livello come Long Beach State, è un fatto sociale, che porta risorse con cui i college possono continuare a offrire borse di studio per assicurarsi i migliori prospetti, almeno fino a quando continuerà ad essere in vigore l’età minima dei 19 anni per andare in NBA.
Raccontaci qualcosa sulla tua vita a Los Angeles.
Dopo il master sono rimasto a vivere a sud della città, a Long Beach, vicino al confine con la Orange County. Una zona con belle spiagge e meno frequentata dal turismo di massa. L.A. è una metropoli gigantesca, è grande come il Veneto, si è sviluppata per orizzontale perché un tempo la scienza antisismica non era tale da permettere la costruzione di grattacieli. Ci sono aree, soprattutto a nord, in cui non mi è ancora capitato di andare, neanche faccio caso che siano parte di Los Angeles. Il clima è fantastico, nonostante una forte escursione termica notturna, ma il vero problema qui è il traffico: a parte la metropolitana, è impossibile far funzionare bene il trasporto pubblico, tutti si muovono in auto. Con queste distanze enormi sarà un problema organizzare i collegamenti per i Giochi olimpici 2028. Gli impianti sportivi, però, sono favolosi, come il nascituro stadio di football e, speriamo, la nuova arena dei Clippers.
Cosa ti aspetti dal tuo futuro?
In un futuro ancora molto lontano, mi vedo di ritorno in Europa a lavorare per i Clippers, per la NBA. Certo, adesso voglio restare in America più a lungo possibile, a L.A. mi trovo benissimo e abbiamo una squadra che può vincere il titolo, che per me sarebbe la ciliegina sulla torta. Siamo consapevoli che sarà difficile, la concorrenza è dura. Non vedo l’ora che arrivino i Playoffs, ne vedremo delle belle, soprattutto a ovest. Sono felice di far parte di una lega come la NBA capace di offrire un simile spettacolo.