Perché la vittoria del titolo non è l’unico motivo per cui ricordare il 2019 di Kawhi Leonard, premiato ulteriormente col riconoscimento dell’Associated Press
Quando, nel luglio 2018, la querelle tra i San Antonio Spurs e Kawhi Leonard si risolveva con la partenza di quest’ultimo verso il Nord, facilmente si poteva intuire che la dinastia dei texani fosse ad un punto di svolta. Se non impossibile, (Pop ne è l’ultima e eterna garanzia) la presenza stabile ai piani alti della Western Conference sembrava pesantemente minata dall’addio del Defensive Player of the Year 14/15 e 15/16.
Vi ricordate quel giovane Leonard nella serie contro Miami?
Con qualche difficoltà in più, invece, si poteva predire un impatto così devastante su Toronto e sul Canada: Kawhi è stato una meteora nel freddo Nord e ha lasciato dietro di sé una striscia imperitura, immortale e inscalfibile. Il suo repentino addio ai Raptors ha contribuito a costruire un alone di mito intorno alla stagione 2018-2019: l’eroe che arriva, quasi per sbaglio, risorge dalle sue ceneri, risolve la situazione nella migliore maniera possibile e poi saluta, malinconicamente. Quasi una sceneggiatura da film Marvel.
I’m a fun guy
24 settembre 2018, è il Media Day dei Toronto Raptors: Leonard è l’uomo più atteso. La sua fama di uomo dalle pochissime parole lo precede e proprio su questo argomento vertono le domande. L’ex Spurs stupisce tutti ma non nella maniera prevista.
Che tipo è Kawhi Leonard? “I’m a fun guy”, la risata forzata, cringe: l’intervista è fra i momenti più memorabili della scorsa stagione e produce una spropositata quantità di materiale online e non solo.
AHA-HA-HA.
The Shot
Probabilmente, fin qui, il momento più iconico della carriera di Kawhi Leonard è il tiro decisivo in Gara 7 contro i Philadelphia 76ers. Una preghiera, un tentativo disperato dall’angolo, che segue la sceneggiatura migliore e di cui si conosce già il finale. Un’immagine che sembra un dipinto, con i volti sfigurati dalla stanchezza ma con lo sguardo fisso, penetrante, su quella palla che rimbalza un paio di volte sul ferro prima di regalare la gioia più grande. Solo un altro giocatore aveva deciso una serie battendo la sirena. Era Damian Lillard, nel 2013, contro gli Houston Rockets e qualche settimana prima contro OKC, con annesso saluto agli avversari. Insomma, uno che di tiri pesanti se ne intende. Per Leonard e per Toronto, soprattutto, è un evento storico, immortalato per sempre.
Board man gets paid
Fatti, non parole. L’immagine che Leonard ha costruito di sé in questi anni è legata soprattutto alla sua straordinaria efficienza, all’imprescindibile concretezza del suo gioco. Ma in una lega così esposta mediaticamente come la NBA, anche dei ricordi passati come quelli del college possono tornare in auge. E così, dopo la vittoria in gara 3 contro i Golden State Warriors, Leonard spiega questa espressione usata ai tempi dell’università. “Board man gets paid” è un inno al lavoro duro e alla costanza. I rimbalzi garantiscono extra possessi e punti facili, ma devono essere sudati.
Il paradosso sta proprio qui: un fatto concreto come i rimbalzi diventano un altro tassello che contribuisce a costruire l’immagine mediatica di Leonard. La praticità al servizio del mito.
Una cavalcata trionfale del genere non poteva che concludersi nel migliore dei modi. Di fronte, l’avversario più temibile degli ultimi anni, quei Golden State Warriors che hanno fatto terminare tante dinastie e hanno letteralmente costretto molte franchigie a rivedere i propri piani in funzione di un eventuale incrocio nella post season (Curry vs Westbrook, Green vs Melo, KD vs George: vi ricorda qualcosa?).
Eppure l’impresa dell’eroe arrivato per sbaglio non può avere il finale migliore di tutti. Titolo e premio di MVP delle finali a coronamento di una post-season strepitosa: 30.5 punti e 9.1 rimbalzi di media, interi periodi giocati praticamente da solo, come l’ultimo quarto contro Milwaukee in Gara 5 e i 17 punti in quello di Gara 4, proprio contro Golden State.
Un titolo totalmente inaspettato e che, in certi frangenti, ha tenuto quasi la metà della popolazione canadese incollata al televisore per vedere le gesta dei ragazzi allenati da coach Nurse, giusto per comprendere l’incredibile portata della cavalcata dei Toronto Raptors.
Leonard è il terzo giocatore, insieme a Abdul-Jabbar e LeBron James, a vincere il premio di MVP delle Finals con due squadre diverse.
Il paradosso del silenzio
Kawhi Leonard è l’atleta maschile dell’anno per Associated Press. Prima di lui, solo altri quattro giocatori NBA hanno ottenuto questo riconoscimento: Larry Bird, Michael Jordan, LeBron James e Stephen Curry. Nelle votazioni ha avuto la meglio, largamente, su Lamar Jackson, quarterback dei Baltimore Ravens, Patrick Mahomes, pari ruolo dei Kansas City Chiefs, Rafa Nadal e anche sul collega greco di Milwaukee. La controparte femminile del premio è andata a Simone Biles, una ragazza che nel suo sport sta letteralmente scrivendo la storia.
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Il 2018-2019 di Kawhi Leonard è paradossale: come può un atleta che ha fatto del silenzio e del lavoro duro il mantra di una carriera di successo, salire spesso e volentieri alla ribalta?
Aldilà degli straordinari meriti sportivi e tecnici, il riconoscimento dell’agenza di stampa statunitense va proprio ricercato in questa bizzarria, una vera e propria anomalia all’interno della NBA, fatta di stelle luminosissime. L’uomo silenzioso Leonard che regala momenti iconici, intrisi sia di puro talento cestistico che di improbabili, quanto memorabili, espressioni. Un impatto mediatico enorme, nonostante l’indole tipicamente silenziosa del giocatore.
È il paradosso di Leonard, che adesso vuole scrivere ulteriori pagine di storia, trascinando la parte meno famosa di Los Angeles ad un titolo che avrebbe migliaia di significati e che contribuirebbe a costruire, forse ancora di più dell’annata canadese, il mito di Kawhi.
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