Il 31 dicembre porta con sé sentimenti contrastanti: da un lato la nostalgia per ciò che è stato o sarebbe potuto essere, dall’altro l’attesa per ciò che ci attende all’alba del nuovo anno. La redazione di NBAReligion.com saluta il 2019 – e il decennio – aiutandovi a mettere ordine nell’album dei ricordi. Un condensato di 365 giorni attraverso momenti chiave e spunti di riflessione.
Who Says No? @BillSimmons "The league has inched closer to a 365 day league." #WhoSaysNo #Dorkapalooza #SSAC19 #ANumbersGame
— Sloan Sports Conf. (@SloanSportsConf) March 1, 2019
Toronto Raptors: un trionfo che parte da lontano
Quella che è appena trascorsa, per i Raptors, è una stagione degna di una serie TV targata HBO. D’altronde, si parla di una cultura in fortissima ascesa a livello di interesse mediatico negli ultimi anni, già portata sul piccolo schermo con una produzione Netflix, incentrata sulle imprese di un tale Vincent Lamar (per gli amici “Vince”) Carter, primo “King in the North”. Fa quasi impressione, pensando alla situazione attuale, ricordare ciò che sono stati i Raptors nel corso dei loro primi anni di vita nella Lega, essendo passati alla storia – va ricordato – più per esser stati “quelli a cui Kobe Bryant ne segnò 81 nel gennaio del 2006” o “quelli che draftarono un giocatore europeo con la prima scelta assoluta” (dal destino cestistico non felicissimo), che per meriti sportivi.
Dopo qualche anno di “purgatorio” vissuto nel segno della leadership di Chris Bosh, la dirigenza canadese comincia a riprogrammare il futuro, effettuando scelte oculate e valutando possibili opzioni vincenti, anche rischiose. Anziché aggiungere, come avrebbero fatto i più, si decide sorprendentemente di sottrarre (talento), sacrificando un Rudy Gay nel suo prime, per equilibrare al meglio il proprio attacco e consegnarne le chiavi all’astro nascente DeMar Derozan e al “leader spirituale” Kyle Lowry. Siamo agli esordi della stagione 2013-2014, e dietro la scrivania dell’ufficio più importante di casa Raptors – quello da General Manager – siede da ormai un anno un uomo di origini africane, alla sua prima vera esperienza dirigenziale in NBA, con lunghi trascorsi nell’ambito dello scouting internazionale e una parentesi da Assistant GM: Masai Ujiri.
Si apre ufficialmente una nuova era per la pallacanestro canadese. La fama dei Raptors nel mondo cresce di anno in anno, assieme alla loro fame di vittorie. Sulla panchina della franchigia canadese sedeva, all’epoca, Dwane Casey, coach nativo di Indianapolis noto per la grande cura della disciplina e della metà campo difensiva. Sotto la sua guida, i Raptors hanno acquisito quelle solidità di fondamenta tanto agognate dalla dirigenza, sia a livello di spogliatoio che di gioco. DeRozan emerge come All-Star e membro dell’élite della Lega, e Lowry si afferma sempre come “guida emotiva” ed equilibratore della squadra.
Ujiri, nel frattempo, consolida la sua fama di “fuoriclasse della scrivania”, lavorando quotidianamente nell’ombra – senza protagonismi o eccessi mediatici – per migliorare il roster sia via Draft sia via trade. Nell’ambiente Raptors si fa spazio una mentalità diversa, una mentalità vincente. Proprio in nome di questo nuovo mindset societario e di squadra, nel 2017, Ujiri decide di sacrificare un altro tassello dotato di enorme talento, ma penalizzato da fragilità mentale ed enormi lacune difensive (Terrence Ross, primo giocatore ad essere draftato durante l’era Ujiri), per accaparrarsi le prestazioni di Serge Ibaka, veterano di mille battaglie in NBA. Il suo arrivo, effettivamente, contribuisce a far crescere la durezza mentale e fisica della squadra. Tuttavia, per l’ennesimo anno, gli entusiasmi generati da un esaltante record in stagione regolare – 59-23 nel 2017-18 –si spengono durante la corsa Playoff, con un drastico calo a livello di prestazioni dei singoli (Lowry e DeRozan su tutti) e, di conseguenza, di fluidità dell’attacco.
Mentre la fama da “squadra da Regular Season” cresce, ai piani alti di casa Raptors comincia a fare capolino – con insistenza- un pensiero negativo: il progetto tecnico guidato dal trio Casey-Lowry-DeRozan, probabilmente, non sarebbe mai stato capace di fare quello step necessario per arrivare fino in fondo nei Playoff e ottenere l’anello, per lacune sia tecniche che caratteriali. È giunta l’ora di andare all-in, di giocarsi il tutto per tutto. Al termine della stagione 2017-2018, Dwane Casey viene licenziato, diventando il primo allenatore della storia della NBA a essere premiato come “Coach of the Year” in seguito a un esonero.
La sensazione degli addetti ai lavori è quella di trovarsi di fronte a una scintilla che avrebbe dato vita, di lì a poco, a un vero e proprio incendio. Effettivamente, i fatti hanno corroborato questa ipotesi: il 18 luglio del 2018 Adrian Wojnarowksi dà l’annuncio sui propri canali social: Kawhi Leonard e Danny Green volano in direzione Canada, e DeMar Derozan e Jakob Poeltl in direzione Texas (assieme a una prima scelta protetta del Draft del 2019). Una vera e propria rivoluzione. Il GM di origini africane, senza battere ciglio, aveva deciso di privarsi dell’allenatore che li aveva condotti verso il primato della Eastern Conference e del giocatore più rappresentativo (dopo Vince Carter) della storia della franchigia. In cambio erano arrivati però un giocatore dalle spiccate doti difensive e dalla mano mortifera dal perimetro (anche – se non soprattutto – in partite di Playoff) e il miglior two-way player della Lega, in scadenza di contratto di lì ad un solo anno. Il rischio era quello di aver dato via tutto, per non ottenere nulla.
La sua risposta ai dubbi di questo tipo avanzati dai media statunitensi è stata quella di assumere un head coach esordiente a livello NBA come Nick Nurse – con alle spalle, per lo più, delle esperienze a livello di G League e di pallacanestro europea –, fidandosi solo ed esclusivamente del suo istinto. Nel frattempo, cresce la fiducia per la presenza a roster di un tale Pascal Siakam, reduce – all’epoca – da un’ottima stagione da rookie, nonostante le basse aspettative e il pedigree non certo da predestinato. Nelle idee di Ujiri e del nuovo coach, Siakam avrebbe potuto ritagliarsi uno spazio sempre maggiore all’interno del roster canadese, portando in dote delle qualità che aveva già mostrato in nuce nel corso della sua prima annata NBA: un ball-handling ed una rapidità dei piedi da esterno, in un corpo da autentico freak.
La sua ascesa avrebbe comportato lo spostamento di Ibaka dalla panchina, e avrebbe richiesto la presenza di un centro che non intasasse l’area, lasciando più spazio alle sortite offensive di Kawhi Leonard e soci. Un giocatore che fosse capace di aprire il campo con delle buone doti di tiro e di passaggio. L’allora centro titolare Jonas Valanciunas non corrispondeva esattamente a questo identikit, vista la preponderanza del post-up nel suo gioco offensivo e la riluttanza a prendersi dei tiri da oltre l’arco. Il profilo perfetto sembrava essere quello di quel Marc Gasol simbolo della cultura “Grit and Grind” di Memphis, giocatore dotato di esperienza e QI cestistico di prim’ordine: un connubio perfetto per le esigenze di Masai Ujiri.
La necessità di trovare un valido backup di Lowry, invece, trova risposta direttamente dai free agent, con la firma di un certo Fred VanVleet, playmaker in uscita da Wichita State (undrafted nel 2016) che tanto bene aveva figurato nella Summer League di quell’anno. Un’altra meravigliosa intuizione di Ujiri.
Il risultato? Un mix perfetto di atletismo, solidità difensiva, altruismo, canestri da oltre l’arco e penetrazioni. Un’orchestra guidata magistralmente da Nick Nurse e Kawhi Leonard, capace di rendere al meglio quella sinfonia pensata e composta dal genio Masai Ujiri. Il resto è storia recente: la palla che rimbalza quattro volte sul ferro e regala ai Raptors la vittoria in gara-7 contro Phila, il tripudio della vittoria contro gli invincibili (ma incerottati) Warriors dopo 6 estenuanti partite, il saluto all’MVP Kawhi, l’hype per la nuova era guidata da Siakam, la certezza Kyle Lowry, l’esplosione d’amore di un’intera nazione.