Golden State Warriors: cedere lo scettro (per ora)
di Paolo Stradaioli
Negli ultimi cinque anni i Golden State Warriors sono stati la squadra più dominante della lega, arrivando sempre alle Finals e vincendo per tre volte il titolo. In questa stagione, il quintetto che ha giocato più minuti in regular season con la franchigia di Oakland (pardon, di San Francisco) è formato da: Alec Burks, Glenn Robinson III, Willie Cauley-Stein, Damion Lee, Draymond Green e D’Angelo Russell.
Definire questo un quintetto NBA richiede una certa dose di fantasia (non ce ne vogliano gli ultimi due di cui sopra). La situazione diventa ancora più grottesca se si pensa che, fino a pochi mesi fa, la stessa maglia era vestita da uno dei quintetti più mortiferi della storia della lega. Tutte le dinastie sono destinate, in un modo o nell’altro, alla fine, eppure, nonostante la roboante caduta dei Warriors, non è detto che la nuova arena di San Francisco non possa ospitare una contender (più prima che poi).
Gli infortuni di Thompson e Durant hanno sensibilmente contribuito alla sconfitta dei Warriors nelle ultime Finals, ma se il primo non ha mai mostrato segni di interesse per altre destinazioni, il secondo, dopo aver vinto due anelli e aver in parte ridefinito la sua legacy, ha deciso di provare a certificare il suo impatto sulla lega accasandosi in una delle franchigie più perdenti di sempre. I Brooklyn Nets hanno trovato il loro franchise player, gli Warriors hanno abbracciato una free-agency nella quale hanno perso, oltre a Durant, anche Iguodala, pezzo pregiatissimo nello scacchiere tattico di coach Kerr. La presenza di Steph Curry, l’arrivo di D’Angelo Russell, ma soprattutto la cultura cestistica ormai radicata tra gli uomini e le donne della Dub Nation facevano sperare in una squadra depotenziata, ma perfettamente in grado di rimanere a galla, in attesa del ritorno di Thompson e di qualche altro movimento che facesse tornare il sereno sulla Bay Area.
Le cose sono andate un po’ diversamente: gli infortuni di Curry, Looney e Russell hanno traslato il pacato ottimismo per il futuro in un repentino allarmismo da fine di un’era. Ogni stagione degli ultimi quattro anni gli Warriors giocavano per iscriversi, una volta di più, nel libro della storia del gioco. Questa stagione non fa eccezione, ma le prospettive sono un po’ cambiate. Le proiezioni di Cleaning the Glass danno Golden State a 20 vittorie totali, mentre Fivethirtyeight è leggermente più ottimista con 25 W; in entrambi i casi i Warriors 19/20 diventerebbero una delle squadre con il maggior differenziale tra vittorie e sconfitte da una stagione all’altra nella storia della lega.
Attualmente i Warriors sono ultimi a Ovest, hanno il quarto peggior NetRating della lega (meglio di Hawks, Cavs e Knicks), e un OffRtg che strappa un sorriso, se si pensa alla potenza di fuoco espressa da Curry e compagni nelle ultime stagioni (attualmente gli Warriors segnano 104 punti ogni 100 possessi, meglio solo di Hawks, Knicks e Bulls). La pallacanestro di Steve Kerr non è invecchiata di un giorno; quella fluidità in ingresso, le scelte aggressive in difesa, la creazione di superiorità sul lato debole rimangono il cardine di Golden State, che però, semplicemente, non ha gli interpreti adatti. Viene fuori che la squadra che ha cambiato più drasticamente il gioco nell’ultimo ventennio è ventottesima per triple tentate (29,1 per game) e ventiseiesima per percentuali da oltre l’arco (33,4%).
Arrivare per cinque anni di fila alle Finals è estenuante e persino una squadra così ben costruita ha bisogno di tirare il fiato. Questa, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno, è la considerazione di coach Kerr sulla stagione in corso. L’ex assistente di Popovich è passato dall’allenare un gruppo di ragazzi abituati a vincere e con l’unico obiettivo di portare a casa il titolo, a un gruppo che non aveva mai giocato insieme, con poca esperienza nella lega e con un certo timore reverenziale nei confronti di quella maglia e del vestirla da starter. Per certi versi, è una delle stagioni più eccitanti per Kerr, perché non solo può continuare a sviluppare il suo basket, ma può farlo anche senza pressione, con l’unico obiettivo di individuare il papabile supporting cast, tra i vari Lee, Cauley-Stein, Paschall, Robinson, Burks, Bowman, Poole, e chi più ne ha più ne metta, per i prossimi Warriors da titolo. D’altro canto, difficilmente dovremmo aspettare molto.
Golden State mantiene un Pace nella media, mentre in difesa sono comunque un gradino sopra la spazzatura. Tornato dall’infortunio, Damion Lee si è scoperto uno scorer di tutto rispetto, la vittoria di Natale contro i Rockets è stata la riprova che gli ingranaggi di questa squadra girano sempre alla perfezione, anche quando il quintetto assomiglia più a quello di una contender di G League. I buoi ormai sono usciti dalla stalla, ma, facendo i debiti scongiuri, il prossimo anno Curry e Thompson saranno di nuovo alla guida della squadra; una squadra che non ha mai abdicato ai suoi principi, una dinastia che forse è fin troppo ingeneroso definire come chiusa, e che magari si è presa solo una stagione per ricaricare le batterie.