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NBA, B.J. Armstrong racconta i “suoi” Chicago Bulls

B.J. Armstrong racconta l’unicità della convivenza sportiva con Jordan e l’importanza del sistema creatosi a Chicago, argomentando la propria tesi su quale squadra, tra le due edizioni dei Bulls da Three-peat, risulterebbe vincente in uno scontro.

Nei giorni in cui la comunità cestistica planetaria rivive le gesta dei Bulls dell’ultima stagione vincente della loro storia (1997/1998), un uomo di pregevole intelligenza sportiva, umana ed ora amministrativa, intervistato dagli appassionati tramite la medesima NBA, rievoca i propri ricordi riguardanti il passato sportivo nell’Illinois. Benjamin Roy Armstrong jr. è il giocatore perfetto per una squadra da titolo: mai una parola fuori posto, dedito all’allenamento e decisivo nei momenti che contano. Scelto dai Bulls nel 1989, giocò sei stagioni a Chicago, contribuendo significativamente in qualità di guardia titolare al fianco di MJ alle vittorie dei primi tre anelli della storia della franchigia (1991-1992-1993), nonché applicandosi perfettamente alla Triangle offense del maestro Zen Phil Jackson, supplendo infine lo stesso Jordan nella metà campo difensiva, quando quest’ultimo propendeva per la libertà intuitiva.

Nell’intervista citata poco sopra l’ormai procuratore ha rivelato, oltre all’amore per Isiah Thomas e l’importanza di giocare nel focoso Chicago Stadium, il coefficiente di captazione che ammantava la figura di Michael Jordan:

“E’ unico, atleticamente e tecnicamente, trascende i limiti del semplice giocatore di pallacanestro. Se Bird e Magic hanno reso famosa l’NBA, Jordan è il suo impareggiabile globalizzatore. Quell’uomo mi ha permesso di realizzare il mio sogno: vincere. Trattasi di motivatore particolare;  per fidarsi dei suoi compagni aveva bisogno che noi dimostrassimo la sua stessa urgenza di primeggiare ed un’enorme ossessione per il gioco, mantenendo sempre alto il livello della responsabilità, anche a costo di arrivare allo scontro verbale e fisico”.

Armstrong Jr. conclude l’intervista telematica con un parere sulla comparazione tra la sua squadra e quella del secondo Three-peat, adottando come metro di giudizio l’età di Michael, ovviamente centro gravitazionale del paragone. La guardia asserisce che la sua squadra avrebbe battuto quella di qualche anno dopo grazie ad un Michael più giovane, atletico ed affamato di vittoria, pur riconoscendo che il Jordan di ritorno dai 18 mesi di ritiro temporaneo fosse discretamente motivato.

 

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