Proseguono in tutte le grandi città statunitensi e non solo le proteste del movimento “Black lives matter”, scoppiate dopo l’omicidio di George Floyd da parte di un poliziotto. Anche moltissimi attori, cantanti e sportivi, tra cui molte star NBA, sono scesi in strada per manifestare urlando “I can’t breathe”, le ultime parole di Floyd che sono ormai diventate il simbolo della violenza della polizia contro le minoranze.
I primi giocatori a schierarsi erano stati Malcom Brogdon e Jaylen Brown, entrambi nativi della Georgia, i quali si sono recati insieme a Justin Anderson e al rapper Lil Yachty ad Atlanta, non a caso la città dove, nel 1929, nacque Martin Luther King. In particolare Jaylen Brown ha detto di aver guidato 15 ore da Boston per essere presente alla manifestazione.
Nel frattempo le proteste dilagavano in tutti gli Stati Uniti e, in particolare, a Minneapolis, nel Minnesota, dove George Floyd viveva ed era stato ucciso. A guidare le manifestazioni c’era Stephen Jackson. L’ex giocatore e campione NBA nel 2003 con gli Spurs era un amico d’infanzia di George Floyd ed è stato da subito in prima linea con “Black lives matter”, mandando poi un messaggio a Donald Trump promettendogli la sconfitta alle prossime elezioni. Insieme a lui a Minneapolis c’erano a manifestare Josh Okogie e Karl-Anthony Towns, mentre il loro compagno D’Angelo Russell era nella sua città natale, Louisville, a marciare per ricordare Breonna Taylor.
Anche altre stelle hanno partecipato alle manifestazioni nelle città dove vivono e giocano. Ad esempio, Giannis Antetokounmpo e i suoi compagni si sono trovati a Milwaukee, dove l’MVP in carica ha anche preso la parola guidando la folla. Dame Lillard e Steph Curry hanno marciato a Portland e ad Oakland. Russell Westbrook e DeMar DeRozan invece hanno partecipato insieme a Kendrick Lamar alle contestazioni a Compton, in California, dove sono nati e cresciuti.
Ma il messaggio più importante rimane quello lasciato da Coach Pop, il quale ha attaccato Trump sostenendo a gran voce la lotta contro il razzismo mai morto negli USA, ricevendo l’appoggio degli altri coach e giocatori.
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