Anche i Golden State Warriors potrebbero essere coinvolti nel processo di emancipazione delle minoranze etniche negli USA. Black Lives Matter infatti, iniziata prima come protesta per la tutela dei diritti degli afroamericani, negli ultimi giorni ha esteso il suo consenso, diventando la voce di tutte le minoranze etniche del Paese. Una di queste è quella dei nativi americani, tra le comunità più emarginate negli USA.
I simboli dei nativi -nonostante la progressiva cancellazione della loro cultura- sono diventati di uso quotidiano nella società statunitense, venendo utilizzati, anche con toni denigratori. Uno degli ambienti che ha maggiormente attinto dall’immaginario degli indiani d’America è stato il mondo dello sport. Simboli e riferimenti ai nativi americani sono diventati mascotte o nomi per squadre universitarie o franchigie dei campionati maggiori.
E così negli ultimi giorni, nel grande calderone di BLM, l’attenzione delle proteste si è spostata, in parte, anche sulle squadre sportive che ne fanno uso.
I primi ad essere finiti nell’occhio del ciclone sono stati i Washington Redskins, franchigia della NFL che esibisce un pellerossa come nome e simbolo. Dopo di loro vi sono stati poi i Cleveland Indians, squadra della MLB che ha come mascotte una rappresentazione cartonata di quello che dovrebbe essere un capo indiano, Chief Wahoo.
Ora però anche i Golden State Warrios potrebbero dover pensare ad un nuovo nome. L’istanza è arrivata direttamente da dentro il mondo NBA. A dichiararlo infatti è stato Carmelo Anthony, che in un tweet ha citato le 6 squadre sportive che secondo lui non rispettano i nativi americani:
“Non saremo uguali finché ogni comunità non sarà uguale. In supporto della nostra comunità di Nativi Americani, l’uso di nomi indiani deve finire.”
Un messaggio, quello di Anthony, che si fonda su un principio assolutamente valido: l’idea cioè che ci si sia appropriati di nomi e simboli di una comunità, quella dei nativi, a cui non è mai stato chiesto il permesso. E che – quella comunità – non abbia mai ricevuto nemmeno una sorta di “indennizzo” o “royalty” per l’uso di quei simboli e nomi.
E tra queste vi sono, appunto, i Golden State Warriors.
La franchigia attualmente di base in California infatti è nata nel 1946 in Pennsylvania, a Philadelphia. E il simbolo usato in quei primi anni era la versione stilizzata e cartonata di un indiano che palleggiava con un pallone da basket.
Nel 1962 la franchigia si trasferì ad ovest, nella baia di San Francisco e con questo arrivò anche il cambio dello stemma. Un restyling che portò ad eliminare l’indiano che giocava ma che mantenne i riferimenti ai nativi americani. Per sei anni la squadra esibì sulle canotte la raffigurazione di un copricapo piumato e una freccia al posto della lettera I. Il definitivo abbandono di riferimento agli indiani avvenne nel 1968: da quel momento la franchigia iniziò ad usare il proprio simbolo per celebrare la California e il ponte di San Francisco.
Oggi degli Warriors di un tempo e delle origini di quel nome non è rimasto più nulla nella franchigia guidata da Curry e Thompson. Soprattutto se si pensa che dalla sua fondazione la squadra ha cambiato anche costa, stato, città. E questo potrebbe esimerli dalle controversie che stanno vivendo Indians o Redskins. Dall’altra parte però nessuno in passato ha mai chiesto un permesso per l’utilizzo ventennale di riferimenti indiani e oggi un “risarcimento” morale potrebbe ancora avere un significato.
Se però questi moti di proteste ci stanno insegnando qualcosa è che la risposta alla domanda del titolo non possiamo darla noi. E nemmeno Carmelo Anthony. Ma bisognerebbe chiedere ai diretti interessati.
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