Il cammino delle due squadre
“Raccogli tutta la tua bravura: ora devi davvero
essere uomo di lancia e guerriero animoso”
(Iliade, Omero, Libro XXII, duello Achille – Ettore)
No, prima di queste NBA Finals gli “scontri” sono stati tutt’altro che epici. No, la trama non è stata né avvincente né coinvolgente. E no, quello che abbiamo visto fino adesso sicuramente non verrà ricordato negli anni (salvo qualche sporadica eccezione).
Eppure se devo pensare a qualcosa che mi aiuti a inquadrare questi Playoffs, anche al netto di tutti questi “non”, l’unica cosa che mi viene in mente è proprio l’Iliade di Omero, da cui ho tratto la frase di apertura. E, appunto, non per l’epicità degli eventi a cui abbiamo assistito nell’ultimo mese ma, molto banalmente, per la fatalistica “rassegnazione” che accompagna il lettore nel corso di tutto il libro, e che allo stesso modo ha accompagnato – più o meno implicitamente – ogni volenteroso appassionato che abbia avuto la costanza e la buona volontà di “sorbirsi” questi non-troppo-emozionanti Playoffs.
Perché in fondo, quando leggi l’Iliade, lo capisci dopo poche pagine come la storia è destinata a finire. Magari ad un certo punto ci speri anche in un colpo di scena, ma alla fine si arriva lì, esattamente dove in cuor tuo eri certo si sarebbe arrivati: fuori dalle mura di Troia, con i due guerrieri più forti finalmente uno contro l’altro. Ettore contro Achille.
E anche noi magari in alcuni momenti ci avevamo sperato. Solo in un po’ di movimento eh, mica tanto. Un cinquantello di Lillard al Moda Center con tripla della vittoria sulla sirena, o che quel jumper di C.J. Miles in gara 1 trovasse la retina invece del ferro. Che i Jazz riuscissero a regalarci un mezzo miracolo a Salt Lake City, o che i Raptors fossero in grado di rispettare almeno un po’ le attese che avevano creato a inizio anno in una nazione intera. Alla fine sapevamo tutti – tutti – come sarebbe andata a finire. Magari ci sarebbe voluta una partita in più, magari due, ma il finale era scritto. Chiedevamo un’irregolarità, qualcosa di inaspettato che tenesse sbarrati i nostri occhi nelle infinite maratone notturne. Ma per i primi due turni non se ne parla: 8-0 Warriors, 8-0 Cavaliers. Semplicemente troppo, per tutti.
Con le finali di Conference, però, pensavamo di iniziare a divertirci davvero. Perché alla fine Boston arrivava come testa di serie della Eastern, aveva già battuto i Cavs nella Regular e aveva il fattore campo dalle sua( e se il “campo” in questione è il TD Garden questo non conta così poco).
E dall’altra parte c’erano gli Spurs, che sono gli Spurs e tanto basta da 20 anni a questa parte.
Ma sbagliavamo ancora.
Sbagliavamo perché come non si poteva chiedere a Licaone o ad Asteropeo di fermare Achille e la sua sete di vendetta, così non si poteva chiedere ai giovanotti di Boston di frapporsi tra il LeBron James più forte di sempre, Kyrie Irving e le NBA Finals. Gara 1 è un disastro, gara 2 una disfatta come poche altre volte se ne sono viste in partite a quei livelli. A scongiurare lo sweep, con Isaiah Thomas fermo in infermeria, serve una dose sconfinata di orgoglio, un cuore immenso, una delle peggiori prestazioni di sempre del Re nella post season, una nostra innocente e benedetta “gufata”, una dormita difensiva di J.R. Smith e una tripla allo scadere di Avery Bradley, trascinata nel cesto dopo tre o quattro ferri dalle speranze e dalle preghiere di tutti gli appassionati di pallacanestro del mondo. Magari anche di qualche annoiato tifoso dei Cavs, non mi stupirei.
Badate: le aspettative non cambiano, nella testa di nessuno, però per una notte (mattino) si va a dormire con il sorriso e con qualche indicibile fantasticheria che ti porta a sognare una tripla doppia di Horford e un fadeaway nowitzkiano di Olynyk sulla sirena che porti la serie sul 2-2 e rimandi l’inevitabile il più in là possibile.
Ma Irving e James dei nostri sogni se ne fregano e di tornare in Ohio per gara 6 non hanno proprio alcuna voglia. 42 punti col 68,2% dal campo e 21 punti nel terzo quarto con 9/10 al tiro per il primo, nella seconda partita nel Midwest; 35 col 72% conditi da 8 rimbalzi e 8 assist per il secondo al rientro in Massachusetts.
Achille è semplicemente troppo forte. Ci si vede l’anno prossimo Celtics.
Dall’altra parte le cose però sembrano diverse, e per quasi 30 minuti possiamo credere davvero di poterci divertire. Gli Spurs sono qualcosa di sublime, e Kawhi Leonard per una sera ricorda tanto il giovane Patroclo, che indossata l’armatura dell’amato compagno greco faceva stragi di troiani nella battaglia che infuriava.
Ma, proprio nell’Iliade, dove non arrivava l’abilità degli avversari nello sconfiggerlo, ecco manifestarsi Apollo. Un colpo alle spalle, l’elmo e lo scudo che cadono, la corazza slegata, la lancia che si spezza, la più totale e indifesa sottomissione. Per Ettore a quel punto è davvero tutto troppo facile.
Proprio come lo è per Golden State, dal decimo minuto del terzo quarto di Gara 1. Apollo questa volta ha le sembianze – tutt’altro che divine – di uno scoordinatissimo gigante georgiano di 2,11 m che non riesce/vuole frenare la corsa per contestare un tiro avversario. Quel piede che arriva dove non dovrebbe arrivare, quel corpo che ricade dove non dovrebbe ricadere.
Per Patroclo-Leonard i Playoff finiscono qui, per i San Antonio Spurs anche, perché da quel momento la serie semplicemente non esiste più. Sweep Warriors e tanti saluti alla banda di Popovich.
A noi sfortunati spettatori non rimane altro che un grande rimpianto per quello a cui si sarebbe potuto assistere, e tanti brividi(e qualche lacrima) nell’assistere per quattro partite alla sublimazione massima del concetto di “inarrendevolezza”, rappresentata da un 39enne coi capelli ormai radi, le movenze rallentate e un talento ancora sconfinato. Nonostante tutto, qualunque cosa dovesse succedere tra un mese, un immenso grazie a Emanuel David Ginóbili.
And finally here we are. Proprio dove tutti ci aspettavamo. Ettore contro Achille, Curry contro James, anche per le NBA Finals del 2017.
Golden State Warriors – Cleveland Cavaliers, Atto III.
Ci dovete tre serie a testa, in sette partite. Di grazia, non deludeteci.