Siamo in piena bufera Donald Sterling. I media di tutto il mondo sono in coda per puntare il dito nei confronti del proprietario dei Los Angeles Clippers. Poco importa che l’uscita del vecchio sia stata carpita ingannevolmente: negli Stati Uniti il razzismo nei confronti degli afro-american è un argomento sul quale non si scherza e che spesso per i media stessi diventa un lungo banchetto al quale consumare le vittima di turno. La natura dei provvedimenti che verranno presi non è ancora chiaro, ma, qualcosa, dalle parti del quartier generale NBA, è in cantiere. Non oso pensare al brivido corso lungo la schiena del nuovo Commissioner Adam Silver (così come al sospiro di sollievo di David Stern) non appena ricevuta la telefonata del collaboratore di turno che lo informava della bomba innescata dal sito americano di gossip Tmz. Se la reazione della lega non è stata ancora comunicata, quella degli sponsor dei Clippers non si è fatta attendere. La società CarMax (catena di rivenditori di automobili), la compagnia aerea Virgin America e la catena di hotel Chumash Casino Resort hanno infatti annunciato di non voler più contribuire alla causa Clippers, giustificando in modo chiaro di voler interrompere la collaborazione proprio a causa delle parole di Sterling. Non solo. Ad analoga conclusione sono arrivati anche i Kia Motors e Redbull sicuri di voler sospendere tutte le pubblicità in favore della squadra di Doc Rivers.
La scelta di Virgin America, Redbull e delle altre società coinvolte non è certo una novità negli Stati Uniti dove il timore di alcuni colossi di farsi identificare con l’uscita dello sportivo di turno e una certa dose di conformiso politically correct giocano un ruolo cruciale nel rapporto sponsorizzato-sponsor. Basti pensare a quanto successo a Tiger Woods che, dopo aver annunciato di volersi ricoverare in un centro di riabilitazione per superare la propria dipendenza dal sesso, ha visto molti suoi sponsor allontanarsi. O quanto accaduto a Rashard Mendenhall, forte running back della NFL che, a pochi giorni dalla morte di Bin Laden, nel 2011, si è permesso di postare su Twitter una frase nella quale si chiedeva come fosse possibile che tanti odiassero un uomo che non hanno mai sentito parlare. Risultato: tagliato dalla Champion, nota società di abbigliamento sportivo, che gli aveva garantito un ricco contratto fino al 2015.
Giacomo Bertone
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