Lo scambio di scelte in cima al Draft 2017 ci pone dinnanzi ad una semi-inscalfibile certezza: i Philadelphia 76ers hanno individuato in Markelle Fultz il talento giusto per dare una decisiva svolta a quel lento ma incessante meccanismo di ricostruzione iniziato nel 2013 ed ormai universalmente riconosciuto con il nome di #TheProcess. Pur di giungere all’obiettivo, la franchigia della Pennsylvania si è mostrata disposta a sacrificare asset di indubbio valore come la terza chiamata assoluta di questo Draft e ― soprattutto ― la scelta del 2018 dei Los Angeles Lakers, giunta a Philly nell’affaire-Howard e ormai non più gravata di protezioni in favore dei giallo-viola.
Non ci è dato conoscere quali siano state le reazioni di Sam Hinkie ― ex General Manager dei Sixers e “scienziato pazzo” alla base di #TheProcess ― quando la notizia della trade ha raggiunto le sue orecchie. La sua filosofia operativa ― incentrata sull’ammassare scelte, selezionando volta per volta il miglior giocatore disponibile in attesa della chiave di volta adatta a sorreggere il maestoso impianto in via di costruzione ― lo ha reso il GM più controverso nella storia recente della Lega. Questo modus operandi, paradossalmente, ha trovato il suo probabile compimento proprio attraverso la cessione di uno degli asset da lui così faticosamente racimolati. I Sixers ,quindi, si trovano ora nella invidiabile situazione di poter creare un vero e proprio Super Team in miniatura, sviluppando adeguatamente il talento del suo giovanissimo core composto da Markelle Fultz, Ben Simmons, Dario Šarić e Joel Embiid.
Hinkie ha ideato, senza poter portarlo a termine, un piano ai limiti della perfezione. Una trama ordita con minuzia, la cui effettiva riuscita potrà, però, cominciare ad esser testata solo nel corso della prossima stagione. Per la prima volta Philadelphia potrebbe avere a disposizione tutti i suoi giovani talenti, smaltiti finalmente i terrificanti infortuni che hanno tenuto fuori a lungo Embiid (due stagioni intere e ben 51 partite nell’ultima stagione) e Simmons (una stagione). Dario Šarić è stato, dunque, l’unico a poter disputare una stagione per intero ― dopo aver saggiamente ritardato di due anni il proprio arrivo in NBA ― mostrando skills da glue-player di altissimo livello che risulteranno quasi certamente fondamentali nel futuro della franchigia di Philadelphia.
Non sembra, però, lui il depositario diretto della filosofia instillata da Hinkie nella franchigia. La pietra angolare selezionata dall’ex General Manager all’inizio del suo percorso è stata Joel Embiid. Il camerunense è stato il primo mattone di #TheProcess, una scelta che condensa a pieno gli elementi cardine della gestione-Hinkie: un giocatore dall’enorme potenziale, grandi prospettive di successo e un tasso elevatissimo di rischio.
Il figlio d’Africa ha una giovanissima “vita cestistica”: ha conosciuto la pallacanestro solo dall’età di sedici anni (in precedenza preferiva il calcio e la pallavolo), è arrivato diciassettenne negli USA ed ha giocato solo 28 partite collegiali a Kansas. Nel corso dell’unica stagione a Lawrence ha però mostrato sprazzi abbacinanti di un talento apparentemente illimitato: la chiara impressione che destava negli osservatori era quella di esser capace di implementare ad ogni partita una nuova freccia da scoccare dal proprio arco. Un infortunio alla schiena lo mette fuori gioco nei momenti nevralgici della stagione NCAA, poi la frattura da stress all’osso navicolare del piede destro: Embiid era un talento cristallino, ma del cristallo aveva anche la fragilità. Dinnanzi alla possibilità di sceglierlo, però, Hinkie non ha dubbi: Joel è il best player available, va scelto.
La forte identificazione tra la filosofia di Hinkie ed Embiid risiede, forse, anche in questo: nel momento di effettuare la prima scelta dell sua carriera da General Manager, lo scienziato pazzo ha scelto lui. Tra la filosofia di Hinkie ed Embiid vi è una sovrapposizione tale da indurre il figlio d’Africa a scegliere #TheProcess come soprannome.
In realtà la scelta dei nickname è solo uno dei tanti elementi di natura mediatica che hanno contribuito a creare il “fenomeno Embiid”. Il centro ha immediatamente afferrato uno dei principi fondamentali alla base dell’odierna NBA: apparire è fondamentale, non ci si può permettere di sprofondare nell’oblio. Allora Joel ha deciso di tramutare i suoi due anni di attesa forzata lontano dai campi in una campagna di dominio mediatico del web che lo ha visto prodursi in un numero spropositato di uscite che hanno squassato l’Internet dalle fondamenta nell’attesa del suo approdo sul pianeta NBA: dal tentativo di portare a Philly LeBron James, all’ormai arcinoto tentativo di flirt con Rihanna, passando per il meno noto ma molto goffo tentativo esperito nei confronti di Kim Kardashian. Il tutto intervallato da video provenienti dai suoi allenamenti individuali, video che avrebbero dovuto avvisare il mondo del fatto che non aveva minimamente perso di vista l’obiettivo finale ― quello di dominare il mondo cestistico ― e stava implementando nuove armi per riuscirci, a partire da un fisico sempre più robusto e un impressionante tiro da tre punti.
Quando, al termine dell’infinito biennio ai box, Embiid ha finalmente avuto la possibilità di scendere in campo, si è fatto trovare pronto: ha affiancato al controllo incontrastato del web, quello meno scontato dei parquet NBA. Il camerunese ha giocato con la calma serafica del predestinato al debutto e nelle sole trenta partite successive che ha avuto la possibilità di disputare, mostrando immediatamente innate doti di leadership e una completezza disarmante sui due lati del campo. Pur sottoposto ad un minutaggio minuziosamente calibrato, risultato della sua storia clinica, il ragazzo da Kansas si è prodotto in una delle rookie seasons più abbaglianti di sempre: le statistiche grezze restituiscono un’ immagine meravigliosa, ma ancora molto distorta, di quello che potrebbe davvero essere il suo impatto sulla lega negli anni. 20.2 punti, 7.8 rimbalzi, 2.1 assist e 2.5 stoppate di media sarebbero già dei numeri di enorme rispetto, ma se si getta un occhio al suo minutaggio (25.4 minuti) si ha immediatamente l’impressione di star guardando solo la punta di un enorme iceberg sommerso. Per avere un’ idea di ciò che potremmo trovarci dinnanzi negli anni a venire, potremmo cominciare a parametrare i suoi numeri sui 36 minuti, minutaggio sicuramente più consono all’immenso valore del centro camerunese: 28.7 punti, 11.1 rimbalzi, 3 assist e ben 3.5 stoppate.
Il suo gioco sembra non conoscere limiti: ad uno skills set offensivo che conta un’ampia scelta di movimenti in post e virate, abbina la capacità di isolarsi nelle situazioni di mezzo-post e dal gomito proprie di un esterno puro ed un tiro da tre punti più affidabile (36.7 % con 3.2 tentativi a gara).
L’attacco di Embiid fa luccicare gli occhi ma in difesa siamo dinnanzi ad un giocatore che ha la possibilità di diventare la milestone per i centri NBA di nuova generazione. Se alle 2.5 stoppate sommiamo un’insospettabile rapidità di piedi nello scivolamento e un semi-irreale 41.1% complessivo concesso ai suoi avversari, il tutto sintetizzato da un eccellente 102 di defensive rating, ci rendiamo conto di esser già nell’assoluta élite difensiva della Lega.
Le cifre ci restuiscono però anche le criticità del gioco di Embiid. Le numerose palle perse (3.8 che diventano 5.4 sui 36 minuti) frutto di letture non sempre all’altezza, e uno spropositato 36% di usage che fotografa perfettamente la situazione di povertà tecnica di Philadelphia: nei momenti di difficoltà si va da Joel, alpha ed omega dell’attacco dei Sixers quando è in campo. Anche a questo proposito, l’idea di affiancargli Fultz e Simmons, eccellenti trattatori di palla, appare perfetta: non far gravare tutto il peso dell’attacco di Phila esclusivamente sulle larghe spalle di Embiid, togliendogli la responsabilità di avere la palla costantemente tra le mani sembra essere la decisione giusta per far fruttare il talento del centro camerunese senza esporlo continuamente ai propri limiti.
Le prime 31 epifanie di Embiid nella NBA sono state da sole capaci di rianimare un ambiente depresso da stagioni di tanking sfrenato, portandolo nel mirabolante mondo del centro camerunese. Un mondo fatto di prestazioni monstre ed esternazioni esilaranti.
Le sue particolari considerazioni sulle elezioni americane, il botta e risposta con la giornalista ed ex attrice a luci rosse Mia Khalifa, la campagna mediatica che avrebbe nelle sue intenzioni dovuto portarlo all’All Star Game e al primo agognato appuntamento con Rihanna e l’ingresso al Wells Fargo Center sulle note di “The Game” dei Motörhead, simulando l’ingresso del wrestler WWE Triple H, sono state il corollario perfetto per una stagione che, se non gravata dagli infortuni, lo avrebbe condotto all’unanimità al premio di Rookie of the Year. A tal proposito, però, Joel si è dimostrato un perfetto uomo azienda: ” Dario Šarić è il vero MVP”, questa la sua dichiarazione. Mai banale, Joel. E se volete sapere cosa pensa dello scambio che condurrà Fultz a Philly, basterà cercare sul suo account Twitter: una sua foto, al fianco del fido Šarić, davanti al nome del prodotto degli Washington Huskies con uno zainetto dei Sixers bene in mostra, ci trasmette tutto l’entusiasmo che si respira nel giovane roster del franchigia della Pennsylvania in vista del futuro. L’attesa in città si è fatta già spasmodica: sono ben 14.000 gli abbonamenti venduti, frantumato ogni record.
Le basi son state gettate, Philadelphia è prossima alla svolta ed Embiid si candida come leader designato di un futuro Super Team. E voi? Ancora non credete nel processo?
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