A chi pensereste se venissi a parlarvi di un lungo in attività capace di risultare un giocatore di impatto sul proprio team sin dal momento del Draft in cui è stato scelto, tanto da guadagnarsi subito un posto nel quintetto All Rookie, per costruirsi poi una carriera in cui finirà per essere selezionato per ben quattro volte per l’All Star Game, per partecipare ai playoff in ogni singola stagione, venendo addirittura inserito in un quintetto All NBA, senza viaggiare mai al di sotto della doppia cifra di media? Probabilmente pensereste ad uno dei fratelli Gasol, ma in realtà la risposta esatta è un’altra: Alfred Joel Horford Reynoso.
Il centro dominicano, contro ogni aspettativa, è l’unico giocatore che può orgogliosamente rispondere ad un identikit incentrato sui requisiti precedentemente elencati, peccato che nessuno se ne sia accorto. Sembra quasi una costante nella sua vita: anche se nessuno sembra accorgersi di lui, Horford continua a fare il suo, a migliorare, a rammodernare il proprio gioco; a raccogliere risultati che poi tutti dimenticheranno, per tornare a sottovalutarlo. Sembra una spirale continua, silenziosa ma inesorabile. Se proprio volessimo assegnargli un’etichetta, in realtà, non potremmo neanche riferirci a lui come un underrated player visti i riconoscimenti di cui si parlava in precedenza e visto che il suo contratto quinquennale con i Boston Celtics (113 milioni complessivi, con tanto di player option e trade kicker). Non esattamente un contratto da giocatore rimasto nell’ombra e, cosa più importante, non esattamente il contratto che Danny Ainge decide di dare quando ha dei dubbi sull’effettiva utilità di un giocatore all’interno di un progetto.
Al Horford, dunque,non è neanche sottovalutato: è semplicemente depositario della rarissima capacità di scomparire in un contesto, pur valorizzandolo dall’interno. La sua storia ce lo dimostra ampiamente.
Educazione Dominicana
Horford, come ogni buon domenicano, era un grandissimo fan del baseball. Tutti i migliori atleti domenicani scelgono il campo a forma diamante, mentre il parquet, spesso, non è neanche contemplato. Lui però era destinato a giocare a basket. Sua zia Kelly ha giocato alla Florida Atlantic University e suo padre, Tito, è stato a lungo e per distacco il più famoso cestista domenicano di sempre: ha partecipato al McDonald’s All American, ha studiato all’università di Miami, è stato il primo giocatore domenicano della storia della NBA ed ha scritto importanti pagine anche nella pallacanestro italiana con le maglie di Firenze e Siena. Al e suo fratello fratello minore, Jon (attualmente in G League e con un passato a Michigan e Florida), non potranno fare a meno di seguire le orme di Tito.
Pur osservando il padre, i suoi idoli d’infanzia erano altri tre in particolare: uno è scontato per qualsiasi giovane lungo cresciuto negli anni ’90 ed è, ovviamente, Shaquille O’Neal, gli altri due invece –Tim Duncan e Grant Hill– ci raccontano molto di quella che è la sua personalità, da sempre poco accentratrice, e sulla sua voglia di badare sempre al sodo. Cosa che ha ripreso da suo padre Tito e sua madre, la giornalista Arelis Reynoso. Tito viveva a Lansing da quando la sua carriera cestistica era terminata e, nell’estate del 2000, intuendo che il pargoletto ci sapeva davvero fare con la palla a spicchi, decide di trasferire Al dalla calda Repubblica Domenicana al meno accogliente Michigan. Il tutto pur di permettere al giovane di mettersi in mostra nelle High School statunitensi. Questa scelta rende il giovanissimo Horford una star in patria: un figlio d’arte che ha avuto l’ardire di confrontarsi con la pallacanestro statunitense sin da subito. Per il piccolo Al non è stato, però, un passo facile: gli mancava tantissimo mamma Arelis, soffriva il gelo semi-perenne del Michigan e aveva una conoscenza davvero poco approfondita dell’inglese.
Quel quattordicenne, però, era già pienamente in possesso della sua enorme etica del lavoro e risponde alla grande: alla Grand Ledge High School diventa una stella, fa registrare il record di punti segnati (1.239) e da senior viene anche eletto Giocatore dell’Anno di Classe “A” grazie alle medie eccellenti di 21 punti, 13 rimbalzi e 5 stoppate a partita. Nel corso della sua permanenza in Michigan partecipa al circuito AAU: i suoi Michigan Mustangs competono anche nell’Adidas Big Time National Tournament 2003, quello in cui rubano la scena gli Atlanta Celtics di Dwight Howard, Josh Smith, Randolph Morris, Javaris Critteton e Brandon Rush. Viene pure inserito nel miglior roster della competizione, ma è al Nike Camp di Indianapolis che la vita del centro domenicano svolta definitivamente. Se ne accorge anche suo padre Tito che, proprio in quell’occasione gli dice: “Andrai in NBA un giorno”.
Malgrado le cifre e i risultati straordinari, però, non viene selezionato per il McDonald’s All-American, è ritenuto un prospetto da sole quattro stelle e appena il trentaseiesimo posto nella lista dei talenti in uscita dal liceo di di Rivals.com. Nel RSCI Ranking 2004 per i giovani in uscita dal college è addirittura il talento numero 47, preceduto da un numero enorme di giocatori che non verranno mai scelti. Ecco qui: per la prima volta in tanti si scordano di lui. Il giovane Horford però, non si scompone: in tanti lo danno per certo come futuro Wolverine, ma lui decide di lasciare il Michigan, un posto in cui non sei necessariamente visibile, figurarsi con un carattere come il suo. Horford sceglie Florida, sceglie coach Billy Donovan, sceglie di far parte di una delle classi di recruiting più incredibili di sempre e così facendo si regala un triennio assolutamente indimenticabile.
I fantastici 4
Al primo anno, partendo in front-court con la macchina da doppie-doppie di nome David Lee, “limita” il suo impatto a 5.6 punti e 6.5 rimbalzi di media ma l’annata si chiude con la vittoria del torneo SEC. Il meglio, ovviamente, deve ancora venire: nella stagione successiva il senior Lee va via ma salgono in cattedra Al e tre ragazzi della sua classe di reclutamento: Corey Brewer, Taurean Green e Joakim Noah. Su questi sophomore Florida fonderà due anni di successi senza eguali. Al primo anno vincono nuovamente il torneo SEC e si spingono, partendo dal seed numero 3, fino alle Final Four di Indianapolis.
Nell’Indiana non c’è storia: spazzate via la cenerentola George Mason del leggendario coach Jim Larrañaga e la blasonatissima UCLA di Darren Collison, Jordan Farmar, Arron Afflalo, Ryan Hollins e Luc Richard Mbah a Moute. Noah viene nominato MOP e sembra che il quadrato magico di Florida abbia intenzione di dichiararsi interamente per il draft del 2006, non così ricco di talento e quindi goloso anche dal punto di vista contrattuale per i giovani fenomeni di coach Billy Donovan.
Il film della corsa al titolo: tra padri famosi in tribuna e la tenerezza di Horford nel tagliare la retina.
E invece, incredibilmente, tutti decidono di tornare per vincere ancora: una decisione che suona quasi romantica, sorprendente, per noi sempre più abituati agli one-and-done. Il risultato è scritto: terzo titolo SEC di fila (stavolta con Horford MVP) e ancora Final Four. Al Georgia Dome di Atlanta in semifinale cade ancora una volta UCLA, che presentava a roster anche un giovanissimo ed acerbo Russell Westbrook, ed in finale si arrende anche la Ohio State di Mike Conley e della futura prima, sfortunatissima, scelta assoluta Greg Oden. Il premio come miglior giocatore lo prenderà Corey Brewer ma è il trionfo di una scelta condivisa: il capolavoro è compiuto ed Horford ha già messo in mostra la sua silenziosa capacità di scomparire in un contesto, valorizzandolo, essendone il leader silente. Questa volta i quattro giocatori di punta di Florida non possono far altro che andar via, lasciando che la bellezza della loro doppia impresa riecheggi per sempre nei racconti sul college basketball.
Pochi mesi dopo, il 28 giugno 2007, subito dopo Oden e Kevin Durant, gli Atlanta Hawks selezionano proprio Al Horford con la terza scelta assoluta. Adesso la lega professionistica più importante del mondo è pronta ad accorgersene. O forse no.