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Boston Celtics

L’universo parallelo di Jaylen Brown

La storia di Jaylen Brown non ha eguali nella pallacanestro NBA dei giorni nostri: dalle campagne della Georgia a Boston, passando per Berkeley

“I am who I am. Take it or leave it. I’m not going to change my values and change my approach because someone feels uncomfortable. I am not going to be disrespectful or step on any toes. But I am going to be me.”

Pochi dubbi e poche, ma solide, certezze. Jaylen Brown è un uomo in missione, verso il suo vero obiettivo: diventare un vincente a tutto tondo, nello sport come nella vita, ricalcando le orme degli allievi di coach Ken Carter/Samuel L. Jackson nella meravigliosa pellicola «Coach Carter». Mai come nel suo caso, sembra essere appropriata la disposizione dei due nomi nella parola composta student-athlete. Bisogna essere prima ottimi studenti ed in secondo luogo si può diventare ottimi atleti. Questo è l’unico modo per diventare dei Vincenti veri, con la “V” rigorosamente maiuscola”. Il paragone calza filmico calza a pennello per una serie di ragioni. Quella più immediata è legata alla cornice ambientale: Richmond da una parte e Berkeley dall’altra, entrambe appartenenti allo Stato californiano.

Credits to: www.usatoday.com

La sua storia ha inizio nella provincia della Georgia, in una cittadina di 58.478 abitanti chiamata Marietta, immersa nel silenzio delle campagne. Di fronte ad una vita mondana che poteva offrire, al suo meglio, l’andare a fare trekking nei parchi vicini o il mangiare cibo particolarmente buono, ad un giovane afroamericano dalle spiccate doti atletiche non poteva che venir naturale il tuffarsi anima e cuore nella pratica di una disciplina sportiva. È il caso di Jaylen Brown, appassionatosi al basket giocando nei campetti cittadini prima e nella sede della Joseph Wheeler High School poi. Il ragazzo non ha mai fatto mistero della sua introversione, così come della sua voglia di emergere, che l’ha aiutato a superare dei momenti difficili di solitudine. Non dev’essere stato facile, per un teenager con delle marcate difficoltà di socializzazione, entrare a far parte di uno spogliatoio unito com’era quello della sua nuova squadra. Per sua fortuna, la luce in fondo al tunnel si intravide ben prima di quanto si aspettasse, grazie all’intervento del suo futuro miglior amico (tragicamente deceduto lo scorso 17 novembre 2017) Trevin Steede; questi, infatti, vedendolo seduto da solo e in silenzio nell’affollata mensa liceale, decise di fare il primo passo, introducendolo in quella nuova realtà.

Per ironia della sorte, il crescere delle prestazioni del giovane Jaylen andò ad inficiare proprio sulla carriera dell’amico Trevin, cui tolse il posto da titolare in squadra in breve tempo.

Le sue prime tre stagioni in maglia Joseph Wheeler HS furono tutto sommato buone, con una regolare alternanza di prestazioni eccellenti o opache. L’inizio della definitiva maturazione è rintracciabile nella sua stagione da senior, al termine della quale Jaylen poté vantare le invidiabili medie di 28 punti e 12 rimbalzi ad allacciata di scarpe. Il suo vero motivo di vanto non risiedeva, tuttavia, nelle grigie statistiche, bensì nei successi di squadra. E fu proprio in quella stagione che riuscì nell’impresa di guidare la sua squadra al successo nel Georgia High School Association AAAAAA State Championship. L’highlight principale del match valevole per il titolo, può essere considerato il fallo subito a 0.6 decimi dal termine, con conseguente due su due dalla lunetta e vittoria del torneo con il punteggio di 59-58. Quel successo lo consacrò in qualità di miglior prospetto dello Stato della Georgia ed attirò l’attenzione dei migliori college della nazione e delle riviste specializzate nello scouting dei migliori talenti in uscita dall’High School. Scout e Rivals gli assegnavano 5 stelle su 5 e lo inserivano, rispettivamente, al quarto (dopo Ben Simmons, Skal Labissière e Brandon Ingram) e terzo posto nel ranking dei migliori prospetti su scala nazionale. Nell’arco di quell’estate poté anche prender parte al McDonald’s All-American Game (anno 2015), nel quale mise ulteriormente in mostra le sue doti balistiche.

Le qualità di Brown però non si limitano al rettangolo di gioco, ma vanno ben oltre. Giunto il fatidico momento della scelta collegiale, divenne chiaro all’intero universo cestistico americano che quel ragazzo aveva dentro qualcosa di speciale. Una scelta oculata in ottica esclusivamente sportiva lo avrebbe condotto verso Università plurititolate interessate a lui, quali ad esempio Kentucky e Kansas. Ma Brown ha sempre dimostrato una sensibilità particolare e una voglia maggiore di esplorare quegli orizzonti che esulano dal campo da gioco.

“Education is something that is very important to me and my family. California Berkeley is at the top of the list. When I visited there, the University fit me.”

La scelta non poteva che ricadere su Berkeley, sede della California University, da sempre considerata meta avanguardista sotto il profilo culturale ed accademico, ancora prima che sportivo. L’identikit degli student-athletes che scelgono di sposarne la causa è diverso da tutti gli altri, dallo stereotipo dell’atleta tutto dedito allo sport ed indifferente a ciò che accade nelle aule universitarie. Jaylen non solo le frequentava quelle aule, ma emergeva anche tra gli studenti più brillanti dei suoi corsi. Nel suo anno da freshman la sua irrefrenabile curiosità era diretta principalmente verso le lingue straniere, ed in particolare lo spagnolo. Già ai tempi era capace di intavolare delle lunghe discussioni con madrelingua spagnoli, dimostrando un’invidiabile padronanza.

L’obiettivo è arrivare a conoscere cinque lingue diverse entro i venticinque anni di età. La lingua prescelta, negli ultimi anni, sembra essere l’arabo: non esattamente il più semplice dei codici linguistici per un ragazzo originario delle campagne di Marietta.

Già questi brevi elementi basterebbero a darci un’idea adeguata di quello che è lo spessore umano del ragazzo, ma è bene specificare che siamo solo all’inizio. Il suo vero grande amore, subito dopo la pallacanestro, sono sempre stati gli scacchi. Le radici del suo innamoramento affondano nello speciale rapporto con il nonno, che, oltre a fornirgli preziosissimi consigli di vita, gli ha trasmesso una sfrenata passione per quel gioco così simile, metaforicamente, alla vita. A tal proposito, una prima soddisfazione arrivò nella sua High School, dove ebbe modo di diventare in breve tempo il capitano della squadra liceale di scacchisti. La storia si sarebbe ripetuta di lì a poco anche a Berkeley. Durante i suoi primi giorni nel campus, infatti, anziché girare per il campus in cerca di feste che inaugurassero il nuovo anno accademico, scelse di investire le proprie energie lavorando sulle proprie skills, con l’obiettivo di entrare a far parte del corso universitario di scacchi (a numero chiuso).

“When I walked into the chess class at Cal, the people were looking at me like I was lost and in the wrong class.”

Non solo entrò a far parte di quel corso-élite, ma, in breve tempo, emerse anche tra i migliori scacchisti dell’intero Ateneo, demolendo i pregiudizi dei suoi colleghi. Un atleta afroamericano di 18-19 anni può avere anche abilità ed interessi che vadano oltre il solo campo di gioco, può emergere anche per spiccate qualità intellettuali, oltre che fisiche. Nel caso di Jaylen Brown, si arriva persino oltre, approdando nel campo artistico. La chitarra prima ed il pianoforte poi sono stati altri due dei suoi passatempi sin dai tempi del college.

Uno degli aspetti più interessanti della sua personalità, emerso più di recente, è legato alla sua apertura verso la pratica della meditazione. Sentirlo disquisire a proposito di tale argomento mette i brividi, se lo si pone in relazione alla sua carta d’identità e al background culturale della maggior parte dei suoi colleghi cestisti. Laddove sta iniziando a diffondersi la “moda” lanciata da Lamar Odom del raccontare le proprie debolezze pubblicamente sul noto sito americano The Players’ Tribune, il giovane Jaylen ha deciso già da tempo di percorrere una via alternativa: quella del lavoro di scavo interiore, utile a rafforzare il proprio mindset e a prevenire problematiche psicologiche serie, lontano dai riflettori. A questo proposito, è opportuno citare un’altra figura importante nella sua esistenza: quella del mental coach Graham Betchart, conosciuto presso il campus dell’University of Virginia, in occasione di un suo seminario sul potere benefico della meditazione. Brown aveva solo 16 anni ed era ancora iscritto alla Joseph Wheeler High School, e decideva liberamente di trascorrere così il suo tempo libero. Colte le potenzialità del progetto, decise di sposarlo a pieno, con consapevolezza ed originalità. Tra le diverse opzioni proposte da Betchart, ad incuriosirlo maggiormente fu una pratica meditativa di origine giapponese, la cui filosofia è ispirata all’immaginaria capacità di un drago di concentrare il fuoco nel proprio ventre e di sputarlo fuori deliberatamente. Il parallelo empirico è con la respirazione umana; quest’ultima, infatti, secondo i teorici giapponesi, è la principale chiave d’accesso per raggiungere un’elevata dose di consapevolezza e sicurezza nei propri mezzi e, di conseguenza, una mentalità vincente. L’obiettivo ultimo sarebbe quello di condurre i praticanti verso una piena comprensione degli altri esseri umani, semplicemente osservando il loro modo di respirare.

Cercando di sfruttarne le potenzialità in connessione con il suo vero amore, quello per il basket, lo stesso Brown ha più volte dichiarato di prepararsi mentalmente e fisicamente per le partite visualizzando delle ipotetiche immagini di gioco e relazionando le sue possibili azioni con quelle dei diretti avversari. Nel caso poi qualcosa andasse storto rispetto ai suoi progetti, le idee sono parecchio chiare anche riguardo il modo per riacquisire fiducia: concentrarsi sul ricordo più bello della sua ancor breve carriera, traendone energia positiva. Nel dettaglio, il suo pensiero vola verso il momento in cui inchiodò la sua prima schiacciata, nel canestro della villa di sua nonna.

“I don’t have any fear of failure whatsoever. I used to and I told myself I wouldn’t allow myself to anymore. I don’t care if I get embarrassed. I don’t care if I miss 20 shots in a row. I don’t care if I turn the ball over driving left eight times. Embarrassment is where growth happens.”

È questa la mentalità con la quale, pochi anni più tardi, Jaylen Brown si è affacciato nel basket dei grandi, dopo la fermata alla California University di Berkeley.

Passeggiando per il campus durante il suo unico anno di frequenza (anno accademico 2015/2016), sarebbe stato possibile incontrarlo in due luoghi, sostanzialmente: il Bohemian Café, dove molto spesso si divertiva a sfidare i migliori scacchisti della città, ed il palazzetto universitario.
Disciplina fisica e mentale andavano di pari passo nel suo percorso, in una simbiosi inestricabile. Crescendo con una particolarissima concezione del dolore, concepito come elemento necessario e utile alla crescita personale, il sudore su un campo di pallacanestro non deve di sicuro averlo mai spaventato, o rallentato. Se a questo si unisce la dotazione fisica di primo livello donatagli da madre natura (2.01 m di altezza per 2.13 m di apertura alare), ci si rende facilmente conto di come il percorso di Jaylen Brown non possa che essere in parabola ascendente.

In maglia California Golden Bears, dopo un primo breve periodo di adattamento, le sue qualità sono venute fuori prepotentemente, con una stagione da 14.6 punti e 5.4 rimbalzi di media ed il conseguimento del premio di freshman dell’anno della Pac-12.
Da un punto di vista di squadra, invece, non fu una stagione altrettanto brillante. La marcia di Jaylen e soci verso la gloria collegiale dovette interrompersi già al primo turno del Torneo NCAA, contro l’Hawaii University. Fu proprio questa una di quelle partite dopo le quali Jaylen, per ricaricarsi, si focalizza sul suo miglior ricordo sportivo, per poter rinascere dalle proprie ceneri (in questo caso specifico, si parla di cifre disastrose come 4 soli punti, 7 palle perse ed il 16% dal campo).

Al netto di quest’ultima pessima uscita, le penne degli scout NBA avevano già scritto tanto, tantissimo, di positivo su di lui. Gli unici dubbi erano legati alle sue altalenanti percentuali al tiro da tre ed al suo ball handling non ancora ai livelli di un esterno di primo livello al piano di sopra. Questo non gli ha impedito di ottenere una chiamata altissima al Draft del 2016, sentendo il proprio nome pronunciato come terzo dal commissioner Adam Silver. Destinazione TD Garden di Boston, Massachussetts. Il GM/santone dei Boston Celtics Danny Ainge, non ha mai fatto mistero del proprio metodo di selezione dei giocatori, in sede di pre-Draft. Negli uffici della dirigenza Celtics, a far colpo sugli addetti ai lavori sono in primis le qualità umane ed in secundis quelle balistiche. Jaylen Brown rispondeva esattamente al tipo di identikit gradito ad Ainge e i suoi collaboratori: un ragazzo maturo e con la testa ben salda sulle spalle, capace di prendere delle decisioni intelligenti in autonomia.

Dopo una prima, necessaria, stagione di assestamento nel sistema di coach Brad Stevens (con pochi minuti giocati ma tanto lavoro in palestra e mai una parola fuori posto), Brown nel corso delle ultime stagioni sembra finalmente viaggiare di pari passo con il suo talento e con le aspettative elevate della dirigenza biancoverde.

Il progetto Celtics, nel frattempo arricchitosi del talentuoso Jayson Tatum, sembra essere quello più adatto ad assorbire la curiosità intellettuale e la sua ferrea etica lavorativa. Al momento parliamo di un giocatore da 20.4 punti, 6.4 rimbalzi e 2.2 assist a partita, con il 55.2% nel tiro da due ed il 38.1% nel tiro da tre; cifre lievitate considerevolmente nel corso dell’attuale stagione. In difesa invece è già oggi uno dei migliori prospetti della lega, con una applicazione ed istinti fantastici e soprattutto un corpo lunghissimo ma elastico che gli permette di poter fronteggiare diverse tipologie di attaccanti. Questa sua ferocia difensiva ha attirato l’attenzione di un Hall of Famer della Lega di nome Isiah Thomas, verso il termine della scorsa stagione. I due “cagnacci” hanno svolto numerosi workout assieme, basati soprattutto sulla nobile arte della difesa; recentemente, lo stesso Thomas ha dichiarato a proposito di Brown: «Sono tutti concentrati sull’aspetto offensivo del gioco. Ci sono pochissimi giocatori, nei quali mi sono imbattuto, che sono così tanto dotati da un punto di vista fisico ed offensivo. Lui vuole anche imparare a difendere e ad essere un grande difensore».

Nella cerchia dei suoi mentori, Jaylen ha accolto nel corso degli anni anche altri maestri dell’efficacia difensiva, quali Bill Laimbeer (campione NBA assieme ad Isiah Thomas nel 1989), l’ex stella della WNBA Theresa Weatherspoon, Brian Shaw, Jason Kidd e Jimmy Butler. I risultati di questo suo modus operandi sono sotto gli occhi di tutti. Umiltà, duro lavoro e sacrificio, da degno allievo di coach Ken Carter/Samuel L. Jackson. Avesse preso parte a quel film, non abbiamo alcun dubbio sul fatto che sarebbe diventato il più brillante membro degli Oilers di Richmond, dominando sul parquet ed affiancando il suo coach nella battaglia mediatica in difesa della necessità di una solida formazione culturale per uno student-athlete.

La ciliegina sulla torta della sua giovane carriera intellettuale è arrivata in data 8 marzo 2018, con un memorabile intervento presso la Harvard University. Su invito di alcuni docenti dell’Ateneo, Brown ha avuto l’opportunità di discutere liberamente di argomenti complessi ed attuali, quali la disuguaglianza nella progettazione istituzionale di progetti sportivi e culturali, il ruolo dello sport nella società e degli sportivi nella battaglia per il progresso. Davanti ad una platea di giornalisti, politici ed intellettuali, con la moderazione del prof. Jahl Meta, Jaylen Brown ha potuto dar prova dei suoi eccezionali valori morali e della sua straordinaria proprietà di linguaggio, infliggendo un ulteriore duro colpo alla struttura pregiudiziale della società nei confronti dei giovani atleti afroamericani. Il suo unico limite, ora come ora, sembra essere il cielo, soprattutto se si guarda la sua carta d’identità che, alla voce “data di nascita”, riporta sinistramente la data 24 ottobre 1996. Mettetevi comodi, perché siamo solo all’inizio. La sua personale battaglia contro i pregiudizi è appena cominciata.

“I disagree that an athlete can’t be intelligent. Some people think that, in basketball, we have a bunch of masculine adults who don’t know how to control themselves. They’re feeble-minded and can’t engage or articulate ideas. That’s a narrative they keep trying to paint. We’re trying to change it because that statement definitely has a racist undertone.”

Polaroid del fotografo NBA Matteo Marchibravo e bello.

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