Che il 2017-18 per i New York Knicks sarebbe stato l’ennesimo calvario lo si poteva facilmente intuire da un paio di emblematici episodi di inizio stagione. Non grossi, ma significativi.
Uno ha a che fare con il mercato mediatico più feroce del mondo: non dev’essere certo il massimo ritrovarsi le immagini dei giocatori sui vagoni della Subway, nella campagna pubblicitaria di un network televisivo, accompagnate da otto lettere che equivalgono a una pugnalata: Hopeless.
L’altro episodio riguarda la solita, discutibile gestione delle basketball operations: il taglio, dopo una sola partita giocata, di Mindaugas Kuzminskas, che non era affatto dispiaciuto nella sua prima stagione NBA (6,3 punti in 14,9 minuti di utilizzo), per fare posto nel roster a quello che, con il senno di poi, sarebbe stato un totale fallimento: il “fantasma” di Joakim Noah, di rientro da una lunga sospensione per uso di sostanze proibite, ma titolare di un contratto pesantissimo. Il figlio di Yannick collezionerà, tra guai fisici e problemi disciplinari, la miseria di 7 presenze e finirà in seguito fuori squadra, saltando di fatto l’intera stagione (decisivo un litigio con coach Jeff Hornacek a gennaio). Ok, “Kuz” non è Noah, ma…
Due episodi minori, non certo esaustivi e ovviamente da contestualizzare, che però la dicono lunga sul livello di disfunzionalità raggiunto dal team blu-arancione, sempre in mano al discusso proprietario James Dolan e incapace di offrire risposte a un ambiente frustrato (eufemismo) che non vede il titolo dal 1973, le Finals dal 1999 e i Playoff dal 2013 ma partecipando soltanto 4 volte nelle ultime 16 stagioni. E poco importa se, secondo Forbes, la franchigia si è confermata per il terzo anno consecutivo come quella di maggior valore in NBA (3,6 miliardi di dollari) e la sesta in assoluto nel mondo dello sport: qui i tifosi vogliono le vittorie, vogliono giocatori per cui esaltarsi. Invece un’altra stagione con record nettamente perdente sta per andare in archivio, costellata dell’ormai abituale campionario di situazioni da squadra “sfigata”: litigi, battibecchi, malcontento, guerriglie social ecc.
Analizziamo cosa è successo nella Grande Mela negli ultimi sei mesi e proviamo a ipotizzare qualche scenario futuro.
Come è andata la stagione 2017-18
Con un record di 27-50 e altre cinque partite da giocare, i Knicks si avviano a concludere la regular season all’undicesimo posto nella Eastern Conference. Più o meno come nelle ultime due stagioni, finite con 32 e 31 vittorie, anche se non è detto che questa volta si raggiunga quota 30. Persino la corsa al tanking, iniziata piuttosto tardi, rispecchia palesemente l’inefficienza della franchigia e l’incapacità di programmare a lungo termine, tra l’altro in vista dell’ultimo Draft con le correnti regole.
A dire il vero, la stagione non è stata del tutto da buttare: c’è stato un inizio promettente (17-14 a Natale), un forte condizionamento dagli infortuni (Porzingis in primis, ma anche Hardaway Jr.) e in ogni caso con l’allontanamento di Phil Jackson e l’addio a Carmelo Anthony il management ha indicato una direzione da seguire. Ma nulla di tutto ciò toglie il fatto che un altro anno sia trascorso e che i Knicks si trovino ancora là sotto, tagliati fuori anzitempo da ogni aspirazione di Playoff e con un futuro tutto da scrivere.
Il de profundis sulla stagione è suonato il 6 febbraio 2018, quando Kristaps Porzingis, l'”unicorno” che costituisce il presente e il futuro della squadra, si è rotto il crociato anteriore in una partita casalinga contro Milwaukee. L’uscita di scena del lettone, con New York già precipitata in classifica a 23-32, ha quindi alimentato una serie negativa che si era aperta pochi giorni prima, il 31 gennaio, e che fino a metà marzo ha visto i Knicks sconfitti 17 volte su 18, salvo poi risollevarsi con qualche vittoria ormai inutile.
Porzingis schiaccia su Antetokounmpo ma la sua stagione finisce qua.
A questo punto Hornacek, con estremo realismo, ha iniziato a disporre un maggiore spazio per i giovani, soprattutto nelle posizioni di guardia, mettendo fuori un indispettito Jarrett Jack, veterano tornato a disputare una buona stagione dopo i guai fisici degli ultimi anni, e riservando i maggiori minutaggi per Emmanuel Mudiay (arrivato da Denver poco prima della trade deadline), Trey Burke (richiamato dalla G League) e Frank Ntilikina, il lascito di Phil Jackson dell’ultimo Draft, probabilmente l’unico, per ora, a salvarsi dalla damnatio memoriae in atto verso tutte le persone chiamate dal Maestro Zen, operazione che non dovrebbe risparmiare neppure Hornacek (si vocifera di Mark Jackson come prossimo head coach).
La squadra, tuttavia, ha avuto alcuni punti fermi durante la stagione, che però da soli non sono bastati: Courtney Lee, esperto collante, ha viaggiato a 11,4 punti di media (sua seconda miglior stagione in carriera) e 2,4 assist (top in carriera); Tim Hardaway Jr. in ala piccola ha collezionato cifre migliore dei tempi di Atlanta (17,5 punti, 3,9 rimbalzi e 2,7 assist) ma oltre ai problemi di infortuni ha tirato malissimo da tre (31,6%, peggior dato in carriera) e dal suo contrattone quadriennale di 71 milioni di dollari ci si aspetta molto di più; Enes Kanter è stato il miglior elemento di questi Knicks con una brillante doppia-doppia di media con 14,1 punti e 11,0 rimbalzi, nonché il leader “vocale” del gruppo, sempre pronto a difendere i compagni e capace persino di scatenare una “guerra” con LeBron James sul campo e sui social, ma ha fatto poco o nulla per colmare le sue abissali lacune difensive; Michael Beasley ha sostituito Porzingis nello spot di “4” dopo l’infortunio, ma si sta sempre parlando di una testa matta con impressionanti alti e bassi. Per il resto, i soliti gregari senz’arte né parte che si sono visti al Madison Square Garden in questi anni, come Kyle O’Quinn o Lance Thomas.
Bravo Tim, ma non basta…
Le statistiche di squadra sono la prova dell’inefficienza di un team tuttora incapace di sviluppare un’attitudine difensiva e una mentalità vincente, con l’aggravante di uno spogliatoio in continua ebollizione tra mugugni, liti e scambi di accuse, e non certo perché a New York ogni sospiro venga amplificato in maniera abnorme. Knicks al 24° posto in NBA per offensive rating (104,1) e al 23° per defensive rating (108,6), con conseguente negativo net rating di -4,5. In attacco, poi, non è certo la squadra più altruista, visto che viaggia al 21° posto nella lega per assist percentage (56,8%) e neppure la più precisa, con un’effective field goal percentage di 50,9% (la ventiquattresima in NBA) e una true shooting percentage di 54.3% (la venticinquesima). Altri dati, poi, fanno venire la pelle d’oca: non solo New York è incapace di attaccare il ferro, con un misero 28° posto per tiri liberi tentati (19,3) – quando avrebbe pure un’ottima percentuale di realizzazione (78,8%, sesto dato NBA) – ma non riesce neppure a essere pericolosa dall’arco: penultima con 23,0 tentativi da tre e terzultima per percentuale realizzativa (34,9).
Quindi, al di là delle poche note positive sparse qua e là, l’incontrovertibile realtà dei fatti è che i Knicks stanno concludendo questa stagione più in fretta possibile, per poi pensare al da farsi.
Enes Kanter ha qualche problema con i re.
Cosa faranno ora i Knicks
Il contesto perdente in cui da troppo tempo si trovano i Knicks non è di facile risoluzione. Neppure dopo questa stagione, che doveva essere una sorta di “anno zero” dopo l’era di Carmelo Anthony, sovrappostasi negli ultimi tre anni a quella di Phil Jackson.
Il front office, ora guidato da Steve Mills come presidente e da Scott Perry nel ruolo di general manager, dovrà costruire il futuro della franchigia attraverso giuste scelte al Draft – qui c’è da dire che Jackson qualcosa di positivo l’ha fatto: non ha sacrificato scelte future – da aggiungere a quelle di Ntilikina nel 2017 e di Porzingis nel 2015; e quindi, alla strategia delle scelte, dovrà affiancare un movimento sul mercato dei free agent e delle trade, non agevole, considerato che per quanto riguarda la prossima stagione lo spazio salariale è un po’ intasato, con contratti già garantiti per oltre 98 milioni complessivi.
Ntilikina al ferro…
…e dall’arco!
C’è innanzitutto l’impellente necessità di togliersi di torno Joakim Noah, ormai fuori da ogni progetto, ma la cui casella stipendio non resterà vuota prima dell’estate 2020 e che costerebbe ai Knicks circa 18 milioni nella prossima stagione e 19 milioni in quella successiva. Si parla di stretch provision, cioè un taglio con stipendio mancante spalmato sui prossimi cinque anni per 7,5 milioni all’anno, se verrà effettuata entro il 31 agosto. Però si sta facendo strada un’altra affascinante idea per provare a dare ai Knicks un’immediata competitività, qualcosa che allo stato attuale sembra lontanissimo.
Probabilmente, i Knicks sceglieranno al Draft con la nona chiamata e uno dei sogni è quello di riuscire a mettere le mani su Trae Young. L’ex Oklahoma University, se non tradirà le aspettative, è uno di quei giocatori in grado di cambiare il destino di una squadra, non per niente i paragoni con Steph Curry si sono sprecati. Quel che manca da anni a New York è proprio una superstar nel ruolo di point guard, un elemento con tanti punti nelle mani ma in grado anche di giocare per i compagni e migliorarne il rendimento, diventando a tutti gli effetti il leader.
Trae Young: ma ve l’immaginate uno così a New York?
E se invece ci fosse la possibilità di far arrivare subito un All-Star? Uno di quelli che infiammerebbero all’istante il pubblico del Madison Square Garden? Ecco allora che si materializzerebbe l’altro sogno, quello di firmare Kemba Walker. Scontento degli Charlotte Hornets e di guardare i Playoff in tv, è uno dei migliori della lega nel suo ruolo e, cosa che non guasta, è originario del Bronx, un aspetto che risveglierebbe l’entusiasmo di un ambiente che ha assoluto bisogno di uno come lui, anche in nome della storica tradizione un po’ offuscata dei playmaker newyorchesi.
Il suo accordo con gli Hornets scade nel 2019, ma potrebbe arrivare subito con una trade che spedirebbe a Charlotte, dove una nuova ricostruzione sembra all’orizzonte, contratti pesanti come quelli di Noah e Courtney Lee e almeno le due prossime prime scelte. Un’asse formato da Walker e Porzingis, attorniati da un supporting cast di valore che potrebbe comprendere lo stesso Enes Kanter come centro (il lettone preferisce giocare da “4”) e un Tim Hardaway Jr. più sano e continuo, farebbe finalmente uscire dalla palude la franchigia blu-arancione. Ma non è tutto.
Insieme al Draft e ai movimenti di mercato, infatti, il terzo livello su cui si gioca il futuro dei Knicks è il recupero di Kristaps Porzingis. La rottura del crociato è stato l’ultimo e più grave infortunio di tutti quelli che hanno bersagliato il 2,21 lettone in questi tre anni di carriera NBA, in cui è riuscito a stupire comunque la lega, rivoluzionando definitivamente il concetto di lungo. Data la pochezza del roster e tutte le problematiche dell’ambiente Knicks di cui si è parlato, un giocatore così giovane – ha appena 23 anni – è stato sempre sovraccaricato di responsabilità e il suo impiego in campo è risultato elevatissimo: quest’anno 32,4 minuti di media, per un usage rate di 31,1%, il che significa che il peso di un’intera squadra è gravato sulle sue spalle.
Con la sua capacità di proteggere e di attaccare il ferro, il suo tiro da tre, l’abilità di contenere il pick-and-roll avversario e di ruotare in difesa, ma anche la sua pericolosa tendenza agli infortuni, i Knicks dovranno valutare ogni situazione, anche nell’ottica della scadenza del suo contratto da rookie, nell’estate 2019. Probabilmente KP rientrerà sul parquet nel corso della prossima stagione, ma a quel punto, soprattutto se la off-season 2018 non dovesse portare in dote la stella desiderata e il ritorno in alto della squadra andasse per le lunghe, non è da escludere che lo staff decida di fermarlo ai box per tutto il campionato e di puntare forte sulla stagione successiva. Quando pure Kemba Walker sarà free agent.
Si resta tuttavia nel campo delle mere ipotesi, che inoltre potrebbero essere completamente rivoluzionate e spazzate via da un’eventuale possibilità di concretizzare una vecchia, pazza idea: LeBron James a New York. Ma questa è un’altra storia. La realtà è che i Knicks ancora una volta stanno per mandare in archivio una stagione mediocre, in cui a spiccare non sono tanto i risultati negativi, ma l’assenza di una mentalità positiva e vincente nell’intera struttura della franchigia. E finché non si risolve questo problema, che sta a monte di tutto, sarà difficile rivedere i blu-arancioni ai livelli che competono a una città come la Big Apple.
L’immagine di copertina è una polaroid del fotografo NBA Matteo Marchi, bravo e bello.
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