Quanto è difficile allenare nella NBA? Nella rubrica dedicata ai migliori allenatori della stagione regolare abbiamo già analizzato i profili di Brad Stevens, Quin Snyder, Dwane Casey e Brett Brown, ma ce ne sono molti altri degni di nota. Il mondo degli allenatori NBA è molto più variegato e particolare di quanti credano ed è fondamentale capire bene l’importanza che hanno per poterli valutare a pieno. Spesso i primi da incolpare quando le cose vanno male, e gli ultimi a prendersi i meriti (perché comunque in campo ci vanno i giocatori e anche la NBA, anzi soprattutto la NBA, è una Players’ League) quando le cose funzionano, sono una componente fondamentale del gioco, e considerato che la regular season ha fornito tantissimi spunti di discussione, proviamo a capire quanto conti realmente la loro figura.
Veterani
Mike D’Antoni, dopo aver vinto il premio di Coach of the Year nella passata stagione, quest’anno ha fatto pure meglio. I Rockets sono stati la miglior squadra della regular season e lui è stato intelligente a rimodellare i concetti della sua pallacanestro consegnando un foglio in bianco a James Harden e Chris Paul, liberi di esprimersi al meglio all’interno dell’eco-sistema costruito dall’ex-Baffo. D’Antoni ha piantato il seme dell’attuale rivoluzione culturale quindici anni fa, quando sedeva sulla panchina dei Suns. Il General Manager di quella squadra era Steve Kerr che non a caso ne ha raccolto l’eredità dal suo arrivo ai Warriors, mostrandone al mondo l’efficacia e costruendo la più letale macchina del basket contemporaneo. Il loro impatto sulla NBA dei nostri giorni è talmente evidente che appare quasi superfluo sottolinearlo.
Così come lo sarebbe elogiare Gregg Popovich, perenne candidato al premio di miglior allenatore dell’anno, da oltre vent’anni, ma la sua gestione nella stagione forse più complicata della sua carriera sulla panchina degli Spurs merita una considerazione. Il monolite nero-argento ha mostrato delle crepe (qualcuno ha detto Kawhi Leonard?), ma gli Spurs hanno comunque ottenuto 47 vittorie, centrando i Playoff per il ventunesimo anno consecutivo. Indipendentemente da chi scende in campo lo stile di gioco è sempre riconoscibile, iniziando dalla difesa, anche quest’anno una delle migliori della lega con 102.4 punti concessi su cento possessi. In attacco la ormai celebre Motion Offense è stata affiancata da molti più isolamenti per LaMarcus Aldridge, l’unico in grado di produrre attacco ad alti livelli ― con le guardie che non hanno mai trovato continuità offensiva e la squadra che ha chiuso col 35% da tre (ventiseiesimi nella lega).
Gli Spurs sono insuperabili in termini di longevità ma ci sono altre due franchigie che ormai da anni fanno del loro coaching staff un punto di forza. Rick Carlisle a Dallas ed Erik Spoelstra a Miami sono in carica da dieci stagioni e anche in questa stagione hanno dimostrato la loro importanza. Gli Heat sono da anni una delle migliori difese della lega grazie a una combinazione di poche triple concesse (soprattutto dagli angoli) e difesa arcigna del ferro, ed è grazie alla loro organizzazione se sono riusciti a centrare i Playoff nonostante un roster privo di stelle. I Mavericks invece sono stati una squadra da lotteria fin dalle primissime battute ma hanno comunque fatto intravedere cose interessanti, tipo concedere appena 23 tiri a partita in restricted area (i migliori della lega) o essere una delle prime dieci per assist su cento possessi. Il sistema offensivo di Carlisle inoltre ha prodotto 1.15 punti per possesso sui roll da pick-and-roll e considerando che i texani avranno la quinta scelta assoluta al prossimo Draft (dove i lunghi interessanti abbondano) la cosa potrebbe diventare interessante negli anni avvenire.
Candidati plausibili
Alla lista dei possibili candidati al premio di miglior allenatore dell’anno sarebbe doveroso aggiungere altri due candidati: Terry Stotts dei Portland Trail Blazers e Alvin Gentry dei New Orleans Pelicans.
È innegabile che l’ennesima figuraccia dei Blazers ai Playoff debba far riflettere in ottica futura (soprattutto per una franchigia che rischia di essere in tassa di lusso nella prossima stagione), ma il lavoro di Stotts e del suo staff nel trasformare una squadra disfunzionale nel #3 ad Ovest è stato notevole. Fino a metà gennaio i Blazers erano una squadra tutto sommato anonima, ancorati ad un record di 22-21 grazie ad una difesa coriacea. Stotts però è stato bravo ad aggiustare in corsa, analizzando quali fossero i problemi e cercando di migliorarli. Ad esempio i Blazers hanno iniziato a prendersi più triple, passando dalle 25.6 tentate a sera (23esimi nella lega) a oltre 31 (decimi). Il pick-and-roll centrale tra Lillard e Nurkic è rimasto il punto di riferimento dell’attacco ma è stato migliorato dal maggiore movimento lontano dalla palla degli altri. La difesa come detto è un capo saldo dall’arrivo di Nurkic, con gli esterni sempre molto aggressivi sul perimetro e il centro bosniaco stabile a protezione del ferro (non a caso sono stati la squadra che ha difeso meglio in restricted area, concedendo appena il 55% agli avversari).
Questo non ha comunque impedito ai Blazers di squagliarsi come neve al sole nel primo turno della post-season, proprio contro i Pelicans di coach Gentry. New Orleans ha uno stile di gioco molto simile a quello dei Warriors, dove Gentry ha lavorato come primo assistente per un anno assieme sotto coach Kerr (nota a margine: era anche uno dei principali assistenti di D’Antoni ai tempi dei Suns). I Pelicans cercano costantemente di alzare il ritmo (104.5 di PACE, i primi della lega) e giocano pochi pick-and-roll ma molto efficaci: mentre Golden State ha nei ball handler il proprio punto di forza, NOLA sfrutta i roll a canestro (che producono ben 1.16 punti per possessi). Come i Warriors, inoltre giocano pochissime situazioni di hand-off, sfruttano tanto i tagli (da dove vengono 1.33 PPP!) e le uscite dai blocchi.
Quando il 27 gennaio il tendine d’Achille di DeMarcus Cousins ha fatto crack era facile pensare che la stagione di New Orleans fosse finita. Invece Gentry e i suoi si sono rimboccati le maniche e sono usciti solo al secondo turno proprio contro i Warriors. L’infortunio di Cousins ha ridotto drasticamente lo star-power della squadra ma ha permesso a Gentry di schierare lineup più versatili su entrambe le metà campo, soprattutto dopo l’arrivo di Mirotic, cosa che ha permesso di migliore l’efficienza difensiva, passando dal concedere da 105.6 punti su cento possessi a 103.
Una partita mostruosa, all’interno di una stagione mostruosa. MVP (?)
Il curioso caso degli Indiana Pacers
I Pacers sono stati la rivelazione della Eastern Conference. Trascinati da un super Oladipo hanno raggiunto il quinto posto e hanno fatto sudare sette camicie ai Cavs al primo turno di Playoff. Prima dell’inizio della stagione i bookmakers di Las Vegas avevano posto la barra degli Under/Over a 30.5 vittorie, invece ne sono arrivate ben 48 vittorie (nessuno ha fatto meglio di loro). Coach McMillan, al secondo anno sulla panchina dei Pacers, ha adoperato qualche modifica rispetto alla passata stagione: meno isolamenti (dall’8 al 5%) e più transizioni offensive, dove Oladipo ha dato una grossa mano. È migliorata la qualità degli hand-off e soprattutto la difesa sul perimetro, che col 33.9% concesso agli avversari è stata la migliore alle spalle solo di Celtics e Sixers. Ma scavando un po’ più in profondità vengono fuori cose interessanti.
I Pacers sono stati una squadra con due facce, con il 19 gennaio come data spartiacque del cambiamento. Fino alle due sconfitte in back-to-back in trasferta con Portland e Lakers il record diceva 24-22, nonostante un attacco prolifico da oltre 108 punti su cento possessi e la miglior percentuale al tiro da tre (38.9) della lega. Da lì in poi il cambiamento, con i ragazzi di coach McMillan che hanno chiuso la regular season con un record di 24-12. Ma la cosa singolare è che questo miglioramento è combaciato con un sensibile peggioramento in ogni fase del gioco. È vero che l’efficienza difensiva è migliorata, passando da 106.6 a 104 punti concessi, ma i numeri sono alquanto singolari. I Pacers hanno difeso malissimo al ferro (65.9% concesso in restricted area, ventiquattresimi) e comunque male anche nel resto dell’area; in maniera quasi inspiegabile sono stati la miglior squadra nella difesa dell’angolo destro del campo (32.7%) e al tempo stesso la peggiore (assieme ai Wizards) nella protezione di quello sinistro. Inoltre hanno sì concesso poco da tre, ma su una mole di tentativi inferiore solo a Chicago, Detroit, Sacramento e Atlanta, tutte squadre che invece l’arco l’hanno difeso male o malissimo.
Nessuno ha fatto meglio di loro per rubate (oltre 10) a partita, ma al tempo stesso sono crollati nella realizzazione da tre (35%, ventitreesimi), in quella dal campo, a rimbalzo sotto entrambi i tabelloni e nel numero degli assist (già comunque sotto la media). I Pacers però sono stati letali nelle partite chiuse in clutch time (ovvero entro i 5 punti di scarto con 5 minuti rimasti sul cronometro).
- Prima del 19/01: 12-10 di record con il 50% di percentuale reale dal campo.
- Dopo il 19/01: 14-8 di record con un efficienza offensiva di 124 punti (+26 di Net Rating) e con un 60.2% di True Shooting.
Spesso la differenza tra una stagione mediocre e una estremamente positiva è veramente sottile. Il caso di McMillan può aiutare a spiegare meglio quanto sia difficile capire il valore reale di un allenatore. Nessuno all’inizio dell’anno credeva nei Pacers e invece sono arrivati a tanto così dall’essere la prima squadra nella storia ad eliminare LeBron James al primo turno di Playoff. Una squadra tostissima, con uno stile grintoso e molti giocatori versatili e in cerca di un riscatto personale. Eppure sono sembrati spesso anche una squadra disfunzionale e i numeri lo dimostrano. Molti dei limiti che erano presenti nella scorsa stagione non sono stati risolti. Cosa dobbiamo pensare quindi di McMillan? Che è stato fortunato? Come detto spesso la differenza è davvero tenue.
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