Partiamo dalla fine. Golden State ha vinto al supplementare una leggendaria Gara 1 delle NBA Finals 2018. I padroni di casa hanno dominato l’overtime, legittimando una vittoria esaltante. Si è arrivati a quel punto per mille motivi, non ultimo JR Smith che corre verso la propria metà campo con la partita in parità e la palla in mano. A 36.4 secondi dal termine, tuttavia, è successo qualcosa di cui si parlerà ancora a lungo, sebbene in alcun modo rovinerà 53 minuti epici. L’ennesima magia di LeBron al ferro porta i Cavs avanti, 104 a 102. Palla in mano a KD: eccoli i due pesi massimi al centro del quadrato, il momento tanto atteso.
La penetrazione di Durant è contenuta in prima battuta da Jeff Green, ma James si frappone tra il #35 degli Warriors e il canestro. LeBron vola per terra, gli viene fischiato sfondamento. Fallo in attacco, dunque. A 36.4 secondi dalla fine e sul +2 Cavs, avere la palla in mano e la possibilità di mettere due possessi tra sé e gli avversari sarebbe stato oro. E invece.
Cosa dice il regolamento
La linea tra block (intralcio, fallo della difesa) e charge (ostruzione, fallo dell’attacco) è il più delle volte sottile. Spesso basta una frazione di secondo per essere nel torto; d’altra parte, una rotazione dal lato debole coi tempi giusti e uno sfondamento preso è sinonimo di grande presenza difensiva e abilità di leggere il gioco, tanto da diventare una vera e propria arte. In stagione regolare, LeBron James si è classificato 17° tra i giocatori NBA con 20+ minuti a sera e 50+ partite giocate per sfondamenti presi a partita (0.15). Maestri del mestiere come Lowry e Ilyasova prendono quasi uno sfondamento ogni due partite.
Il regolamento, in ogni caso, nella sezione relativa alla possibilità di usare o meno l’instant replay in situazioni di block/charge, parla chiaro:
“Dalla stagione 2012-2013, gli arbitri possono rivedere [al monitor] qualsiasi chiamata di ostruzione/sfondamento quando non sono ragionevolmente sicuri se il difensore fosse o meno nella restricted area [dentro o fuori lo smile, ndr].”
Viene inoltre aggiunto, ma qui ci siamo, che tale viaggio davanti alla tv a bordocampo può essere fatto solo negli ultimi 2 minuti del quarto periodo o per tutto il supplementare.
La chiamata deve vertere per il fallo della difesa (block, ostruzione, intralcio) se il difensore è:
“In una posizione non legale o in una posizione legale ma dentro lo smile.”
D’altra parte, la chiamata del fatto in attacco avverrà quando:
“Il difensore è in una posizione legale e fuori area.”
La chiamata di Ken Mauer (32ª stagione, 13ª volta alle NBA Finals), che con Ed Malloy (16ª stagione, 6ª apparizione alle NBA Finals) e Tony Brothers (24ª stagione, 7ª volta alle NBA Finals) ha arbitrato in Gara 1, decretava il fallo in attacco di KD. Una chiamata che, al primo replay se non in diretta, ha lasciato interdetti tanti, tra cui Flavio Tranquillo al commento.
Alla fine hanno preso la scelta giusta?
Una scelta era stata fatta, live, dagli arbitri: fallo in attacco. Una scelta sbagliata? Probabile, ma pur sempre una scelta. Da sempre gli arbitri sono parte del gioco e, come i giocatori e i membri del front office, commettono errori. Invece la chiamata è stata ribaltata. Anche grazie a Mike Callahan in collegamento dal Replay Center di Secaucus, N.J., la posizione di James è stata definita non ferma, anzi ancora in movimento verso sinistra. In questi termini, correttamente, non può essere mai sfondamento. I due conseguenti liberi di KD hanno poi pareggiato la partita a quota 104.
Come visto sopra, l’unico motivo per cui gli arbitri potevano andare al monitor era un ragionevole dubbio sulla posizione (nella restricted area o meno) del difensore. Secondo Mauer, intervistato da Associated Press nel post-partita, il dubbio c’era eccome:
“Volevamo vedere se James fosse o meno nella restricted area. Una volta al tavolo [del replay], è possibile per noi controllare anche la posizione del corpo del difensore. Era sì fuori dallo smile, ma in una posizione difensiva illegale. […] Ecco perché abbiamo dovuto ribaltare la decisione.”
Naturalmente gli arbitri difendono la propria posizione. Così fa anche Joe Borgia, vice-presidente delle Replay and Referees Operations: una volta premuto il grilletto dell’andare al replay (verificare la posizione di James), gli arbitri potevano controllare qualsiasi cosa, tra cui anche possibili infrazioni nel movimento di tiro o nei passi di KD.
Quindi? Qual è il punto?
Il fermo-immagine dell’azione:
Nell’ovale rosso, LeBron James è almeno una trentina di centimetri fuori dalla restricted area. Gli arbitri hanno dunque usato un’incertezza che verosimilmente non era tale (LeBron è visibilmente ben fuori dallo smile) per fare arrivare ad un fine (ribaltare una chiamata sbagliata) che non potevano perseguire in altro modo. È comprensibile, dunque, il rammarico di coach Lue.
Un’ultima annotazione: da che è stato fischiato il fallo a KD alla decisione finale, sono passati quasi 150 lunghissimi secondi. Per qualsiasi atleta, nel pieno dello sforzo fisico e mentale, è difficile rimanere calmi e concentrati. Possibile che i nervi tesi a fine gara siano una conseguenza anche di questo snervante attendere a bordocampo. L’espressione di LeBron una volta comunicatogli la decisione finale degli arbitri dice tutto.
LeBron era sì in una zona perfetta per prendere lo sfondamento, ma è arrivato con una frazione di secondo di ritardo: fallo della difesa. Questa era la chiamata da fare. Lì per lì, però, è stata presa un’altra decisione: girare attorno alle regole, specialmente per coloro che le devono far rispettare, non è il massimo. Riprendendo un tweet di Royce Young di ESPN, “il dilemma morale per gli arbitri NBA è stranamente affascinante”: infrangere di proposito le regole per correggere la chiamata è la chiamata giusta?
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