Poter vantare a libro paga uno dei migliori giocatori della lega, ma senza avere, a meno di stravolgimenti che definire “clamorosi” è un eufemismo, la minima chance di competere per la vittoria del titolo. Benvenuti nel mondo di Anthony Davis e dei suoi New Orleans Pelicans, che loro malgrado non solo si trovano a vivere nella stessa era cestistica delle varie Golden State, Houston, Boston e chi più ne ha più ne metta, ma devono anche far fronte alle tristi conseguenze dell’essere uno small market. Già, perché oltre a The Brow, in Louisiana di giocatore di primissimo livello fino a qualche mese fa ce n’era anche un altro, che però si è guardato bene dal firmare un pur sontuosissimo pluriennale che lo avrebbe legato ai Pelicans e soprattutto a New Orleans, preferendo accontentarsi di cifre ben più modeste da spendere però al sole della California e in compagnia di Curry, Thompson, Green e Durant. Nessun rancore, ci mancherebbe; per il momento però basta piangersi addosso. In fondo, la scorsa stagione non è stata poi così negativa, anzi.
Nonostante l’infortunio di Cousins che ha prematuramente messo fine ai sogni di gloria di Anthony Davis e compagni, la squadra è riuscita a racimolare 48 vittorie a fronte di 34 sconfitte, che hanno portato in dote la sesta posizione nella Western Conference. In post-season c’è solo il tempo di servire un sonoro sweep ai Trail Blazers prima che i campioni in carica di Golden State spazzino via o quasi i ragazzi di Alvin Gentry, ma il superamento dello scoglio chiamato “Primo Turno dei Playoff” da parte di Davis costituisce già un traguardo impensabile fino a qualche stagione fa e il migliore mai raggiunto da undici anni a questa parte dalla franchigia. Oltre al solito, impressionante, The Brow, che alle ormai consuete prestazioni da MVP ha saputo abbinare anche una condizione fisica quantomeno rassicurante, è doveroso concedere i giusti meriti anche al resto della truppa. Jrue Holiday, playmaker ammirato troppi anni fa a Philadelphia ma dalle quotazioni ormai in picchiata, ha ritrovato lo smalto dei bei vecchi tempi quando ormai nessuno ci credeva più, dimostrando di meritarsi il ricco quinquennale da 131 milioni di dollari firmato la scorsa estate. Un redivivo Nikola Mirotic, letteralmente rinato dopo l’affaire Portis, si è saputo calare nella parte di “nuovo Boogie”, concludendo alla grande una stagione a dir poco sorprendente a livello individuale, mentre Playoff Rondo ha portato il giusto mix di esperienza, carisma e talento alla squadra. Peccato che anche lui abbia abbandonato la nave: quando il Re chiama, rispondere no diventa impresa quasi impossibile, a maggior ragione ora che si parla di Los Angeles e non più di Cleveland.
Messa in archivio la stagione 2017/18, il front office dei Pelicans ha fatto di tutto per non mandare all’aria la baracca, cercando di non sciupare quanto di buono fatto vedere lo scorso anno e di aggiungere talento da far gravitare intorno ad AD. Nelle condizioni di New Orleans era obiettivamente difficile trovare di meglio in giro rispetto a Elfrid Payton e Julius Randle, sbarcati in Louisiana per raccogliere le pesanti eredità di Rondo e Cousins. Di certo non rappresenteranno un upgrade rispetto allo scorso anno, ma il talento non manca e, se le cose non dovessero andare come sperato, i contratti dei due nuovi arrivati non rappresenteranno comunque un peso morto per le casse dei Pellies, date le cifre complessivamente a buon mercato con cui sono stati ingaggiati. Scongiurato il rischio “Luol Deng 2.0” per il futuro, il GM Demps ha piazzato anche la scommessa Jahlil Okafor, ventitreenne già all’ultima spiaggia e già infortunatosi all’esordio stagionale contro i suoi ex Bulls. Il tempo ci dirà se il front office ci avrà visto giusto o se Okafor dovrà prepararsi ad un viaggio di sola andata verso altri continenti, ma per ora il gioco vale ampiamente la candela.
Punti Forti
Non è necessaria un’analisi troppo approfondita per accorgersi delle grandi individualità e del talento complessivo che aleggia nello spogliatoio dei Pelicans. Primo fra tutti, ovviamente, Anthony Marshon Davis. The Brow è l’incarnazione della superstar che ogni tifoso vorrebbe nella propria squadra: fisico da centro dominante in attacco e in difesa, mani sopraffine, QI cestistico decisamente sopra la media. Messi da parte almeno per un anno i cronici problemi fisici, nella scorsa stagione Davis ha compiuto un altro passo, forse quello decisivo, verso l’Olimpo della lega, migliorando anche quei pochi fondamentali in cui fino a qualche mese fa non eccelleva. Il tiro da tre ad esempio: l’anno scorso Davis è passato dal 29,9% ad un dignitoso 34% dalla lunga distanza aumentando leggermente anche il volume di tiro. Marcare un avversario divenuto ormai decisamente versatile e moderno, per di più con il 29,7% di Usage, è un vero e proprio incubo per i difensori avversari, a cui non spetta nemmeno il premio di consolazioni in attacco: non è certo un segreto che a fine anno il suo nome figuri puntualmente tra quelli in lizza per il Defensive Player of The Year.
Venti minuti abbondanti di puro strapotere.
Ciò non toglie che dietro la buona difesa dei Pelicans – quarti lo scorso anno per tiri mediamente contestati agli avversari (64.7) e secondi per palloni vaganti recuperati – si celi l’impegno e la dedizione degli altri membri della squadra. In quest’ottica, l’arrivo di un buon difensore come Payton non può che far felice coach Gentry, pronto a schierare un backcourt di primissimo livello, almeno nei pressi del proprio canestro.
Al di là dell’extraterrestre con il 23, Jrue Holiday è la vera anima di questi Pelicans in entrambe le metà campo. Oltre ad avere il fisico e l’esperienza giusta per prendersi cura dell’esterno avversario più pericoloso, l’ex Sixers ha portato a termine la sua metamorfosi in moderna combo guard, facendo girare i suoi compagni attorno a quella macchina perfetta che risponde al nome di Anthony Davis e non disdegnando di tanto in tanto la soluzione personale. Da un punto di vista squisitamente realizzativo, lo scorso anno Holiday ha collezionato 19 punti di media, massimo in carriera, sfoggiando una forma da All-Star e candidandosi prepotentemente al ruolo di secondo violino dopo la dipartita di Cousins. I rinforzi sono arrivati, ma nel caso in cui dovessero deludere le attese Holiday non esiterà a rispondere presente.
A proposito di rinforzi: come già anticipato, i diciotto milioni potenzialmente investiti su Randle – un anno garantito, player option al secondo anno – e gli appena tre percepiti da Payton rappresentano un rischio calcolato alla perfezione dal front office dei Pelicans. Quella dell’ex Magic è una firma passata ingiustamente sotto silenzio: se messo nelle giuste condizioni potrebbe agilmente guadagnarsi la riconferma a cifre ben più onerose dato che, con un realizzatore come Holiday accanto, il difficile rapporto con i ferri delle arene NBA potrebbe passare finalmente in secondo piano, con i compiti offensivi che si ridurrebbero a quello che il ragazzo sa far meglio, cioè smazzare assist. In fondo non si può certo dire che Rondo fosse un cecchino micidiale: probabilmente non avrà mai la sua leadership, ma a livello di caratteristiche tecniche Payton non è poi troppo diverso dal nuovo play dei Lakers.
Un discorso simile può essere fatto a proposito di Julius Randle. Il prodotto di Kentucky non ha ancora rispettato le promesse con cui si era affacciato nel basket dei grandi ormai quattro anni fa a causa di qualche infortunio di troppo, ma evidentemente anche di limiti caratteriali che ne hanno condizionato fin qui la carriera. In quel di New Orleans lo attendono una seconda chance e parecchi minuti da sfruttare, probabilmente in uscita dalla panchina, dato il grosso contributo offerto da Mirotic nei pur pochi mesi trascorsi in Louisiana (doverosa parentesi: con Threekola a rifiatare in panchina, il Net Rating dei Pelicans passava da 4,1 a 1,4, cifre assurde per un giocatore che fino all’anno scorso era poco più di un onesto mestierante d’oltreoceano). Dotato di uno spiccato atletismo e di una ben fornita faretra offensiva, ma soprattutto in odore di contract year, l’ex Lakers ha dei validissimi motivi per far ricredere i suoi detrattori.
Punti Deboli
Il roster a disposizione di coach Gentry non è certo tra i peggiori del panorama NBA, ma sembra peccare di carisma e soprattutto di inesperienza. La leadership di Rondo e Cousins è merce rara e in sede di Playoff i Pelicans potrebbero pagare il fatto che, al di là dell’ultima stagione sopra le righe, nessuno dei giocatori o quasi abbia accumulato un minutaggio quantomeno decente in partite in cui il pallone scotta più del dovuto: anzi, la stragrande maggioranza della squadra “vanta” dei trascorsi non proprio da incorniciare in contesti sportivamente demotivanti, incluso quello dei Pelicans di qualche stagione fa.
Abbiamo parlato di rischio calcolato, certo, ma pur sempre di rischio si tratta. Nulla vieta infatti che i vari Payton, Randle e Okafor portino a New Orleans quell’aurea mediocritas – o piattume che dir si voglia – che li ha accompagnati negli anni trascorsi nella lega. Altro rischio da non sottovalutare è quello alla voce “infortuni”. AD è reduce da due annate da 75 partite di regular season, ma ciò non significa che lo staff tecnico e medico dei Pelicans non debba monitorare giorno e notte la condizione fisica della propria stella: se Davis fa crac, addio sogni di gloria.
Pur al netto dei nuovi arrivi estivi, non si può non notare come il roster dei Pellies pecchi di scarsa profondità, in particolare nel backcourt. Darius Miller e Troy Williams non sono certo i ricambi che ogni allenatore sogna di veder alzarsi dalla panchina quando le cose vanno male; inoltre, con Solomon Hill in grado di mettere piede sul parquet soltanto dodici volte in un’intera stagione, le responsabilità nello slot di ala piccola sono ricadute esclusivamente o quasi sul buon E’Twaun Moore. Il numero 55 è stato sì autore di una buona stagione, ma con il piccolo E’Twaun costretto a giocare fuori ruolo e senza rincalzi validi i Pelicans rischiano di dover fare per forza di cose affidamento su una esterno sottodimensionato, peraltro non esattamente conforme agli standard di qualità dei colleghi della Western Conference.
Scenario Migliore
I nuovi arrivati si ambientano alla perfezione, Davis si aggiudica l’MVP e la squadra riesce dove l’anno scorso aveva fallito. L’avversario di turno in Finale di Conference è di un altro pianeta, ma i Pelicans si preparano a vivere un 2020 da sogno.
Scenario Peggiore
Dal sogno all’incubo il passo non è poi così lungo come sembra. Holiday sembra aver smarrito la retta via, mentre i vari Payton, Randle e Okafor fanno un’estrema fatica a imboccarla anche solo per una volta. Se a questo delirio aggiungiamo anche i problemi fisici che ricominciano a tormentare il povero Davis, la tragedia è servita: l’obiettivo Playoff svanisce e The Brow medita l’addio.
Pronostico
Cousins e Rondo se ne saranno pur andati, ma il core alla base della striscia positiva con cui i Pelicans hanno concluso la scorsa stagione è stato riconfermato praticamente in toto. A meno di tragici sconvolgimenti – vedi infortuni di AD – Playoff sembrano decisamente alla portata di questi ragazzi. Le finali di Conference, data l’agguerrita concorrenza, un po’ meno. Probabile che si bissi l’approdo al secondo turno anche nella prossima post-season, traguardo che però farebbe storcere più di un naso in Louisiana. Una Semifinale di Conference con Davis è innegabilmente poca roba per una stella del calibro di Davis, i cui anni a New Orleans stanno inesorabilmente passando senza che la squadra riesca a spacciarsi per una contender fatta e finita. In caso di insuccesso non si escludono ripercussioni dai risvolti drammatici in chiave mercato: forse è presto per dire “adesso o mai più”, ma il rischio che Davis possa essere attratto da lidi più glamour e competitivi non è poi così remoto.
Commento