Chris Paul raggiunge Harden a Houston, Paul George e Carmelo Anthony uniscono le loro forze a quelle di Westbrook, i Cavaliers allestiscono una squadra per poi smantellarla in fretta e furia. Il tutto per evitare che gli Warriors si portino a casa il secondo titolo consecutivo e il terzo in quattro anni, ma a giudicare dal risultato finale gli sforzi profusi finora dalle dirette concorrenti sono stati vani. Da qualche anno a questa parte il copione è sempre lo stesso: buona parte dei GM NBA – eccezion fatta per quegli inguaribili amanti del tanking più o meno selvaggio – fa i salti mortali per consegnare ai propri coach una squadra in grado di giocarsela con Golden State, mentre ai ragazzi della Baia basta schioccare le dita per far arrivare i free agent più ambiti alla corte di Steve Kerr. E proprio quando il gap che li separa dalle altre squadre non sembra più così incolmabile, ecco che il GM Bob Myers, con l’amichevole partecipazione di DeMarcus Cousins, decide di sconvolgere di nuovo gli equilibri della lega. Sono necessarie però due parole sulla stagione prima di passare al capitolo Boogie.
Tra problemi fisici e riposi precauzionali, Kerr ha fatto fatica a schierare contemporaneamente tutte le sue stelle in regular season, ragion per cui nel bilancio finale figurano “ben” 24 sconfitte. Addio primo posto ad ovest e relativo fattore campo, ma una volta in post-season i ragazzi di Kerr hanno dimostrato perché fossero unanimemente considerati i favoriti per la vittoria finale. Solo Mike D’Antoni e i suoi Rockets hanno seriamente insidiato i campioni in carica nelle Finali di Conference, ma con Paul fermo ai box anche Harden è stato costretto ad alzare bandiera bianca. Messo in bacheca l’ennesimo Larry O’Brien Trophy, Bob Myers si è potuto dedicare alla costruzione degli Warriors del futuro. In realtà, con 61 milioni di dollari impegnati per rifirmare Durant per i prossimi due anni – player option al secondo anno – non c’era poi così tanto margine di manovra, tuttavia coach Kerr può comunque dirsi soddisfatto del lavoro fatto dal suo front office in off-season. Kevon Looney, evidentemente non ancora pronto a lasciare il nido per spiccare il volo, si è accontentato di un annuale a 1,5 milioni, mentre il veterano Jonas Jerebko, in uscita da Utah, porta esperienza, fisicità e tiro da tre punti alla causa in cambio di due milioncini. All’interno di una second unit che comunque sembra aver perso qualcosa nel corso dell’off-season, le loro firme costituiscono dei buoni colpi per i campioni in carica. E ci sarebbe anche un certo DeMarcus Cousins…
Se gli addii dei vari West, Pachulia, McGee, Young e McCaw hanno indubbiamente indebolito e accorciato la rotazione degli Warriors, l’arrivo di un centro del calibro di Cousins è quanto serviva per recapitare un messaggio alle altre aspiranti contender: la squadra da battere è sempre la stessa. La scelta di DMC ha inevitabilmente scatenato una lunga serie di polemiche sui superteam della moderna NBA e sulla scarsa leadership dimostrata da chi decide di consegnare le armi per entrare a far parte dell’esercito nemico, ma non sta a noi condannare né assolvere, pertanto sorvoleremo su qualsivoglia discorso etico. Quel che è certo è che Boogie ha lasciato sul piatto diversi milioni di dollari pur di dividere lo spogliatoio con Curry, Durant e compagnia cantante, nel tentativo di ridare slancio in un contesto sportivo in cui sembra oggettivamente difficile fallire ad una carriera che potrebbe uscire notevolmente condizionata dall’infortunio al tendine d’Achille patito nel corso della scorsa stagione.
Al di là dei 5,3 milioni di dollari che Cousins percepirà fino a giugno, gli Warriors non hanno nulla da perdere: ad una cifra che definire ridicola sarebbe poca cosa, Bob Myers si porta a casa un centro Top 3 della lega, pronto a dimostrare di valere ben altre cifre quando si sarà perfettamente ristabilito dall’infortunio. Nonostante la voglia di Boogie di accelerare i tempi, difficilmente vedremo all’opera la Death Lineup più mortifera di sempre prima della prossima primavera, ma nel peggiore dei casi gli Warriors avranno noleggiato per un anno una testa calda che comunque in un modo o nell’altro avrà modo di dare il suo contributo; in quel caso amici come prima, con Boogie che farà le valigie verso altri mete in cui cercare il rilancio. In caso contrario si getterebbero invece le basi per altri anni di dominio pressoché incontrastato, con un occhio però necessariamente rivolto al salary cap: anche Klay Thompson è in scadenza e sarà praticamente impossibile confermare sia Cousins che lo Splash Brother.
Punti forti
Come abbiamo già anticipato, mentre le altre ventinove squadre sono costrette a cambiare continuamente pedine e strategia nel tentativo di stare al passo con Golden State, coach Kerr può contare su un gruppo rodato e molto affiatato. Curry, Thompson e Green, lo zoccolo duro degli Warriors, giocano insieme dal 2012 e dopo anni di sudore e successi conoscono alla perfezione i movimenti e i giochi di Golden State. Nessuna contender può vantare un core così longevo e performante, frutto di un eccellente lavoro di scouting e di scelte a dir poco azzeccate in sede di Draft. Il fatto che poi questo nucleo dal DNA vincente attragga quasi magneticamente i talenti delle altre star della lega complica il lavoro delle altre contender, costrette ad inseguire senza mai raggiungere i livelli di Golden State.
In quattro anni di lavoro, Steve Kerr è riuscito ad armare un attacco che in NBA ha pochi precedenti. Al di là del notevole talento dei singoli, raramente si sono visti cinque giocatori muoversi – e correre, dato che Golden State ha chiuso la scorsa regular season al quinto posto per Pace con 100,43 possessi in 48 minuti di gioco – con tale armonia e sincronia in campo, andando a creare un sistema di spaziature sostanzialmente perfetto grazie al quale le bocche da fuoco degli Warriors riescono puntualmente a devastare la difesa di turno. Pur avendo a roster Durant e Curry, due dei migliori giocatori al mondo nella metà campo avversaria, gli Warriors preferiscono giocare di squadra anziché affidarsi all’estro delle proprie individualità, come testimoniato dai rispettivi 3,6 e 1,5 possessi che in media le due stelle della squadra trasformano in isolamenti.
Vi basti pensare che un realizzatore come Harden ne gestisce ben 10, ma soprattutto che anche attaccanti ben lontani dal livello dei due Warriors come l’ex Harrison Barnes e Austin Rivers hanno rispettivamente a disposizione 4,1 e 3,5 isolamenti a partita, dati fuori da ogni logica nel sistema di Golden State, che vanta invece 29,3 assist di media a partita e il 68,5% delle conclusioni realizzate derivanti da un assist: nessuno come loro.
Quando siete giù di morale date un’occhiata a questo video: passerà tutto.
Al di là degli indubbi meriti del coach, c’è da dire che il suo lavoro viene enormemente facilitato dalla qualità dei giocatori a sua disposizione. Senza dilungarci troppo sulle ben note doti individuali della Splash Family, il fatto che Golden State riesca a tirare col 50,3% dal campo dimostra come ventiquattro secondi non siano poi così pochi per trovare la via del canestro quando si ha a disposizione gente da 26,4 punti (nella fattispecie Curry e Durant, che hanno chiuso con la stessa media) nelle mani. Il risultato è un 112,7 di Offensive Rating che fa dell’attacco orchestrato da Kerr il terzo della lega dietro a quello di Rockets e Raptors.
Con le difese in balia di Curry e Durant, gli altri Warriors hanno vita facile nel crearsi il giusto spazio per colpire gli avversari. Quando il cronometro dei ventiquattro si avvicina allo zero e la palla inizia a scottare, la soluzione più sicura è affidarsi al cecchino Thompson, reduce da un’annata conclusa con il 44% da tre punti. A proposito del tiro pesante, le triple degli Splash Brothers hanno dato il là ad una vera e propria rivoluzione nella lega. Supportate da match analyst e nerd prestati al mondo della palla a spicchi, le varie franchigie hanno individuato nel tiro da tre punti la soluzione più remunerativa per punire le difese avversarie, ma senza entrare troppo nello specifico è evidente che questo processo finisce per diventare deleterio quando non si hanno i mezzi per poterlo mettere in pratica con successo.
Il caso degli Warriors è emblematico: pur essendo stati i pionieri di questa disciplina, Curry e soci tentano solo 28,9 tiri da tre a partita, piazzandosi diciassettesimi in questa speciale classifica; dando un’occhiata alle percentuali, si nota però come il loro 39,1% sia il miglior dato della lega. Morale della favola: se non si hanno a disposizione Curry, Thompson o Durant, a volte è meglio uno di quei demonizzati jumper da due punti piuttosto che una tripla dritta sul ferro.
Punti deboli
Non che sia facilissimo individuarne, ma proviamo comunque a trovare la pagliuzza nell’occhio degli Warriors. Gli arrivi di Cousins e Jerebko, per quanto preziosi, non bastano a colmare le lacune di una panchina che ha visto salutare molti dei protagonisti delle recenti vittorie di Golden State. Sebbene la qualità dello starting five sembrerebbe sminuire l’importanza di avere comprimari all’altezza, al momento la coperta sembra essere un po’ corta soprattutto nel reparto esterni, fattore che alla luce dei problemi fisici puntualmente accusati dai ragazzi di Kerr potrebbe complicare le cose nei periodi caldi della stagione. Già, perché non si può certo dire che Curry e soci siano immuni agli infortuni, anzi: se gli acciacchi dovessero ripresentarsi simultaneamente potrebbero essere dolori in post-season.
Altro fattore da non sottovalutare è la tenuta mentale di Golden State. Posto che ad oggi non abbiamo motivo di credere che gli Warriors abbiano saziato la loro fame di vittorie, alla luce dei rumor che sono circolati al termine della scorsa stagione dobbiamo però escludere che quella di Oakland sia una sorta di isola felice in cui tutti giocano tenendosi per mano. Pare che dietro all’anello vinto lo scorso anno si celi più di un malumore nello spogliatoio, e se a tutto questo aggiungiamo l’arrivo di una testa calda come Cousins non è poi così scontato che gli equilibri rimangano al loro posto e non saltino. Per ora sembrerebbe che ad Oakland sia sbarcato un Boogie in versione zen, disposto ad aiutare i compagni più giovani e desideroso di inserirsi al meglio, ma staremo a vedere.
Scenario migliore
Three-peat. Con il ritorno in campo di Cousins diventiamo tutti testimoni del miglior quintetto ad aver mai calcato un campo da basket. Gli Warriors macinano vittorie su vittorie spazzando via ogni contender o presunta tale sul cammino che porta all’Olimpo dei campioni. Con buona pace dei vari Rockets e Celtics: sarà per la prossima volta, ovvero quando (forse) il nucleo storico dei pluricampioni si scioglierà.
Scenario peggiore
Un mix di pressione, litigi e infortuni impedisce ai campioni in carica di giocare ai loro livelli. Conquistati i Playoff abbastanza agevolmente, arrancano fino alle Finali di Conference, dove vengono rispediti a casa dalla corazzata di turno.
Pronostico
Per scommettere contro questi Warriors serve tanto, troppo coraggio. Sebbene ad oggi la concorrenza ad ovest sia più agguerrita che mai, a meno di ribaltoni ad oggi non sembra esserci un futuro alternativo al Three-peat. Se i Rockets qualche mese fa sono arrivati ad un passo dall’impresa, l’aggiunta di un Cousins pur a mezzo servizio rischia di far saltare definitivamente il banco. Chiaro, c’è una regular season da affrontare con le difficoltà, anche fisiche, che ne conseguono, ma Golden State ha tutte le carte in regola per portare nella Baia il quarto titolo in cinque anni.