A pensarci bene, l’epopea di Derrick Rose in NBA è durata troppo poco per renderlo una leggenda. Mentre altri grandi campioni sono stati capaci di rimanere nell’elite della lega per cinque, dieci o quindici anni, Rose è stato il migliore per poco più di una stagione. Troppo poco per restare nell’olimpo della pallacanestro, ma abbastanza per conquistare il cuore degli appassionati di questo sport, specie quelli che si erano affacciati alla NBA in quel periodo. Era impossibile non rimanere colpiti dal suo modo di stare in campo. Le sue straordinarie doti fisiche, un istinto che gli permetteva di sapere cosa fare in modo innato. Sembrava nato per dominare il parquet, immarcabile per qualsiasi avversario.
Il suo gioco si basava in gran parte sul suo fantastico atletismo, che gli ha permesso nei primi anni in NBA di collezionare poster e riempire video su video di highlights. Superava di poco il metro e novanta, ma questo non gli impediva di schiacciare a due mani, con gli occhi all’altezza del ferro. Che fosse un contropiede veloce o una penetrazione a difesa schierata dopo aver battuto l’uomo, Rose amava schiacciare. E per gli avversari era meglio rimanere a guardare, o si faceva la fine di Goran Dragic. Anche il suo ball handling era di grande livello, e l’unico aspetto negativo del suo gioco era un tiro da fuori poco affidabile. Ai giorni nostri, con le spaziature attuali e l’importanza che viene data al tiro da tre, forse avrebbe faticato di più. Ma probabilmente sarebbe stato in grado di superare i suoi limiti con l’allenamento e la ferocia con cui si accostava alla pallacanestro.
Un campione, un talento puro che a soli 22 anni diventa il più giovane di sempre a vincere il premio di MVP. 25 punti, quasi otto assist e quattro rimbalzi di media nelle 81 partite di regular season giocate: i numeri di un fenomeno. E a Chicago sono convinti: dopo un decennio abbondante di peregrinare, è arrivato l’erede di Michael Jordan.
La vita di un atleta è però appesa a un filo. I più grandi dello sport non sono semplicemente i talenti migliori, ma quelli che nell’arco di una carriera sono riusciti a rendere al massimo. E il filo di Derrick Rose si spezza una sera di fine aprile 2012. Il primo turno di Playoff accoppia i Bulls, primo seed della Eastern Conference, ai Philadelphia 76ers. Un matchup molto favorevole per la squadra di Chicago, che in Gara 1 prende il largo già dai primi minuti. A 1:20 dalla fine della sfida i Bulls sono sopra di 12. La vittoria è in cassaforte, ma Derrick Rose è ancora in campo. Forse coach Thibodeau non vuole prendere rischi, forse vuole che la sua stella arrivi in tripla doppia (ha 23 punti, nove rimbalzi e nove assist).
Rose chiama un’azione tipica dei Bulls, un pick and roll in cui Joakim Noah viene a portare un blocco. Sul cambio difensivo avversario Rose attacca Spencer Hawes. Ma nel momento in cui chiude il palleggio e raccoglie la palla per scaricarla, si accorge che qualcosa non va. Quando ha saltato per fare l’arresto a un tempo il ginocchio sinistro ha ceduto, e non riesce a camminare. Si siede a terra, si accorge che è successo qualcosa di grave. Il dolore è troppo forte. I primi esami diranno che si tratta della rottura del legamento crociato anteriore.
La rottura del legamento crociato anteriore sinistro nel 2012 e del menisco destro nel 2013 non gli permetteranno più di giocare al livello dei primi quattro anni in NBA. Per ogni sportivo, una sequenza di infortuni di quel tipo sarebbe già durissima da superare. Ma per un giocatore come Derrick Rose, che faceva dell’atletismo e dei cambi di velocità i suoi punti forti, sono due infortuni devastanti.
Dopo l’addio ai Bulls nel 2016, Derrick Rose ha dovuto cambiare squadra e, soprattutto, ha dovuto cambiare se stesso. Non deve essere facile, per un ragazzo che a soli 22 anni vince il premio di MVP, accorgersi che non è più il giocatore di una volta. Accorgersi che è ancora giovane, ma non tornerà mai forte come un tempo. Dopo le grandi difficoltà iniziali, Rose ha imparato a valorizzarsi per quello che era. Non più la stella di un tempo, ma un’ottima point guard di rotazione, in grado di firmare il suo career high da 50 punti nel 2018, per poi scoppiare in lacrime.
Martedì Derrick Rose ha annunciato il suo ritiro, mettendo la parola fine su una carriera NBA durata 16 anni. Una carriera NBA lunghissima, in cui ha vissuto almeno tre vite. Ha toccato da giovanissimo il tetto del mondo, è caduto rovinosamente per due volte, ma si è rialzato. In questi giorni in cui giustamente si celebra la sua vita sportiva, in molti lo definiscono il più grande what-if della storia. Lo fanno per complimentarsi con lui, ovviamente, ma non è del tutto corretto limitarci a omaggiarlo per quello che sarebbe potuto essere.
In questi anni abbiamo visto un grande campione cadere e rialzarsi, accettando che le cose possono non andare come vorremmo. Nella sua fragilità (quasi un’antitesi, pensando a quelle schiacciate impressionanti), Rose ha trovato la forza per continuare a giocare. E i tifosi di tutto il mondo lo hanno continuato ad amare, anche se non era più la stella di un tempo. E pur sapendo che non sarebbe mai tornato ad esserlo, lo rispettavano intonando il coro “MVP, MVP, MVP”.
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