Quando si racconta una storia generalmente si parte dall’inizio, dal “c’era una volta”, dai titoli di testa. E poi ci sono altri tipi di storie. Storie di un’importanza tale che non importa da che punto si inizi a raccontarle, l’importante è che vengano raccontate. Storie come l’Odissea, o come l’Eneide, che iniziano nel bel mezzo dell’azione, senza preamboli, senza introduzioni, senza tanto spreco di parole, senza star lì a versare fiumi di inchiostro. Questa è una di quelle storie. Una di quelle storie in cui bisogna partire dalla fine, o quantomeno da un momento vicino alla fine. Una di quelle storie in cui si inizia in medias res e poi si rimane lì, a immaginare che il protagonista si sieda a tavola con noi e che ci racconti come è andata, come è andato tutto per davvero.
E quindi stavolta inizieremo dalla fine, inizieremo da un freddo 11 novembre dell’anno appena passato. Siamo a Dallas, Texas, all’interno dell’American Airlines Center, casa dei Dallas Mavericks. Un palazzetto dotato di 21.041 posti a sedere. E sono tutti occupati. In campo, a battagliare con gli uomini di Mark Cuban, padrone di casa ed eclettico ospite della serata, ci sono dei lanciatissimi Sacramento Kings, impegnati in uno degli inizi di stagione migliori degli ultimi anni (5-3 il record detenuto dalla franchigia californiana in quel momento). Succede nel quarto quarto, con i Mavericks avanti 82-75, a 8 minuti e 57 secondi dalla fine della partita. Jameer Nelson si butta in area facendo collassare la difesa della squadra californiana su di sé, poi apre per Monta Ellis, appostato sul perimetro. A sua volta Ellis legge bene il movimento del suo compagno di squadra con la maglia #41 che, lasciato libero da Carl Landry, si avvicina per ricevere il passaggio appena dentro la linea del tiro da tre. Il tiro parte, preciso e netto, come radiocomandato, e raggiunge il fondo della retina. Gli speaker, il pubblico, i commentatori televisivi impazziscono. Perché quel canestro, per quanto possa sembrare semplice, o addirittura banale, non è un canestro come tutti gli altri. E il giocatore con la maglia #41 che l’ha realizzato non è un giocatore come tutti gli altri. Perché quel giocatore si chiama Dirk Nowitzki, e quel tiro segna il suo punto numero 26.947, grazie al quale supera Hakeem Olajuwon al nono posto della classifica dei top scorer della storia NBA. Abbastanza per diventare il più prolifico International Player di sempre. Storia. Alla fine della partita, vinta da Dallas per 106-98, Dirk Nowitzki rientra nello spogliatoio, si fa una doccia, si cambia ed esce. Probabilmente si dirige verso uno dei numerosi ristoranti della città per concedersi una sacrosanta cena di festeggiamento. Un po’ di brindisi, tanti sorrisi, foto, ricordi. La storia inizia qui. Seduto al tavolo del ristorante, gli occhi di Dirk, umidi di emozione sono fissi sul nulla, mentre la sua mente vaga, indietro, indietro, sempre più indietro, per raccontarci la sua storia. E come Ulisse alla tavola del re dei Feaci, come Enea a banchetto da Didone, Dirk inizia a raccontare.
Era una soleggiata giornata di giugno. Il 19 giugno 1978. Appena fuori dalla sala parto dell’ospedale di Würzburg, splendida città d’arte bavarese, il signor Jörg Werner se ne stava seduto, mano nella mano con sua figlia Silke, che non aveva ancora compiuto 4 anni, mentre aspettava che sua moglie, Helga Bedenbröcker-Nowitzki, desse alla luce il suo primo figlio maschio. Jörg aveva già deciso il nome di quel bambino, e aspettava solo che l’infermiera uscisse per chiamarlo e dirgli che finalmente era padre per la seconda volta. Quando successe, l’uomo strinse forte la mano di Silke e entrò con lei in sala parto, vedendo subito sua moglie con in braccio un fagottino, suo figlio, il suo Dirk.
Dirk Werner Nowitzki era solo l’ultimo arrivato in una famiglia completamente votata allo sport. Papà Jörg era un giocatore di pallamano a livello internazionale, mamma Helga aveva giocato a basket nella nazionale femminile tedesca, partecipando anche agli Europei del 1966. Anche Silke si era già avviata al basket, seguendo le orme di Helga, così crescendo, Dirk visse lo sport come una parte fondamentale della sua vita. Era assolutamente scontato che iniziasse a praticarlo. Cominciò con la pallamano, passione paterna, e con il tennis, ma era un bambino alto. Troppo alto. I compagni lo tormentavano, gli davano del “monstrum”, lo prendevano in giro per i suoi centimetri, per i suoi piedoni. Così Dirk, a 15 anni compiuti, decise di sottrarsi a tutto quello scherno, decise di cambiare. Guardando sua madre e sua sorella capì che c’era uno sport dove la sua altezza non solo non sarebbe stata motivo di prese in giro, ma sarebbe stata il suo punto di forza. Il basket. Entrò nelle giovanili della squadra della sua città, il DJK Würzburg e cominciò ad allenarsi duramente. Doveva esserci qualcosa di scritto dentro alle sue cellule, qualcosa nel suo DNA che lo rendeva così adatto al gioco. La sua abilità colpì immediatamente tutti i suoi allenatori.
Colpì addirittura Holger Geschwindner, ex giocatore e stella della nazionale tedesca, che, secondo la “leggenda”, aveva imparato i fondamentali del gioco da un soldato americano di stanza in Germania. Holger si avvicinò a Dirk e gli fece un’offerta difficilissima da rifiutare: gli avrebbe fatto da coach personale, l’avrebbe allenato due o tre volte a settimana per tutto il tempo che sarebbe stato necessario a farlo diventare un grande giocatore. Dirk accettò. Da quel momento il giovane iniziò a seguire un programma di allenamento che, ai più, sarebbe potuto sembrare “strano”: esercizi di tiro, e di passaggio, poco potenziamento muscolare e poca tattica. Un programma quantomeno poco ortodosso per un ragazzo che sembrava avviato al ruolo di lungo. Ma soprattutto l’allenamento di Dirk fu fatto di letture e musica, con Geschwindner convinto che lo sviluppo della sua personalità fosse il primo passo fondamentale per il suo sviluppo come giocatore. Dopo un anno i progressi di Dirk erano così stupefacenti che Geschwindner lo mise di fronte a una scelta. Il giovane Nowitzki poteva scegliere se essere un eroe in Germania o di competere contro i migliori del mondo. Nel primo caso, Holger pensava che Dirk fosse già pronto e quindi era inutile continuare ad allenarsi. Ma nel secondo caso, Geschwindner gli propose di cominciare un programma d’allenamento personale giornaliero. Dirk chiese un paio di giorni per pensarci. Era un ragazzo testardo e deciso, non gli piacevano le cose facili. Quando tornò da Geschwindner fu per dirgli di sì. Da quel momento Dirk entrò a far parte del gruppo di giovani che si allenavano a tempo pieno con i giocatori professionisti del DJK Würzburg. Con lui c’erano Robert Garrett, Marvin Willoughby e Demond Greene, che avrebbero poi avuto una bella carriera internazionale.
Nell’estate del 1994, a 16 anni, solo un anno dopo aver deciso di percorrere la strada del basket, Dirk Nowitzki entrò a far parte del DJK Würzburg, che militava nella seconda divisione tedesca. All’epoca il coach della squadra era un certo Pit Stahl, che decise di sfruttare al massimo tutto il duro lavoro che Dirk aveva fatto con Geschwindner, facendo giocare il ragazzo come un’ala perimetrale, piuttosto che come un centro votato al pitturato, facendo fruttare le sue notevoli capacità balistiche. Ma quella stagione 1994/95 fu una delusione su tutta la linea: la squadra chiuse al sesto posto in campionato (che sarebbe un buon risultato, non fosse che quello specifico campionato contasse soltanto dodici squadre) mentre Dirk passò la maggior parte del tempo di gioco in panchina perché, a causa dei suoi pessimi voti a scuola, era costretto a perdere gli allenamenti per studiare e rimanere al passo con le lezioni. Ma la musica cambiò decisamente la stagione successiva. Risolti i suoi problemi scolastici, infatti, Dirk Nowitzki ebbe modo di concentrarsi sul basket e di segnalarsi agli occhi di Stahl, che decise di giocarselo titolare, al fianco della star della squadra, l’ala finlandese Martti Kuisma. Dirk ricompensò il suo coach con prestazioni esaltanti, andando stabilmente in doppia cifra, facendosi in questo modo una certa pubblicità. Una sera, tra il pubblico che si accomodava sulle tribune del palazzetto di Würzburg, c’era anche il coach della nazionale tedesca, Dirk Bauermann, venuto a osservare cosa fosse capace di fare quel cosiddetto “ragazzo prodigio”.
Dirk Nowitzki, quella sera, segnò 24 punti di fronte a un Bauermann estasiato. A fine partita il coach dichiarò candidamente:
“Dirk Nowitzki è il più grande talento cestistico tedesco degli ultimi dieci, forse quindici anni”
I fatti gli diedero ragione. Il DJK Würzburg chiuse la stagione al secondo posto, mancando la promozione in Bundesliga solo per la sconfitta 86-62, nella partita decisiva contro il BG Ludwigsburg. Dirk segnò solo 8 pts in quella partita. Il DJK era sempre di più la sua squadra. Quell’estate, era il 1996, giunse a Würzburg un gruppo di persone che raramente si erano viste in quella parte di Baviera. Erano un gruppo di catalani, ben vestiti e con la pelle cotta dal sole, tutti con un sorriso bianco e smagliante, tutti con il completo decorato da un singolo stemma, ricamato sul taschino. Lo stemma del F. C. Barcelona Bàsquet. Chiaramente non erano lì in vacanza. Erano lì per parlare di Dirk. Il DJK sapeva di non poter resistere al fascino di una piazza del genere. Ma fu Dirk Nowitzki stesso a fermare tutto: non avrebbe lasciato la nazione finché non avesse completato l’Abitur (l’equivalente tedesco dell’esame di maturità). Il trasferimento sfumò nel nulla, il Würzburg riuscì, contro tutti i pronostici, a trattenere la propria stella. E già una nuova stagione era all’orizzonte. La storia sembrò replicarsi quell’anno, con Dirk che venne abbandonato da Kuisma, che lasciò la squadra, e allenato dal vecchio mentore Geischwindner, che aveva sostituito Stahl. Nowitzki non fece rimpiangere l’idolo finnico, e si impose come miglior marcatore della squadra: 19.4 punti a partita per lui, in grado di trascinare, praticamente da solo, il DJK al secondo posto. E aveva solo 18 anni. Di nuovo però il Würzburg fallì la promozione. Quell’estate segnò una nuova tappa fondamentale nella carriera del giovane Dirk. Venne scelto per partecipare ai match d’esibizione del Nike Hoop Heroes Tour, nei quali avrebbe giocato contro alcune star NBA, come Scottie Pippen e Charles Barkley. In uno show-match di 30 minuti, Nowitzki dominò Sir Charles, riuscendo perfino a schiacciare su di lui. A fine partita, l’ala, allora agli Houston Rockets, dichiarò:
“Il ragazzo è un genio! Se vuole entrare in NBA, può chiamarmi.”
Nella stagione 1997/98 Dirk Nowitzki completò il suo Abitur e dovette prestare il servizio militare obbligatorio nella Bundeswher. Nowitzki lo ricorda come un periodo molto duro:
“Fu dura all’inizio. Non avevamo privilegi, e dovevamo partecipare a tutte le esercitazioni. Dopo divenne più rilassato.”
Dal punto di vista cestistico invece, la stagione del DJK Würzburg fu uno dei più grandi successi della storia della squadra. Grazie a un Dirk Nowitzki pazzesco, cresciuto sino a toccare i 2 metri e 11 centimetri, e in grado di collezionare 28.2 punti di media in stagione, il Würzburg dominò il campionato, vincendo 18 partite su 20. I playoff, stavolta, non furono stregati. Un percorso straordinario si chiuse con la vittoria 95-88 nel match decisivo contro il Freiburg. Dirk Nowitzki segnò 26 punti, prendendosi anche il titolo di “German Basketballer of the Year” di BASKET Magazine.
In più, il 29 marzo del 1998, Dirk era stato scelto per partecipare al Nike Hoop Summit, una partita di esibizione tra una squadra di “internationals” e una di giocatori USA. Fu un match memorabile per lui, che mise a segno 33 pts, 14 rbd e 3 stl, tirando con il 50% dal campo, e oscurando il talento di futuri giocatori NBA come Rashard Lewis e Al Harrington. I migliori club europei lo guardavano come il frutto dell’albero della conoscenza del Bene e del Male, che nessun serpente tentatore arrivava a offrire loro, i più blasonati college della NCAA facevano a gara per blandirlo, coccolarlo, tirarlo dalla loro parte. La NBA cominciò a desiderarlo ardentemente.
Era l’estate del 1998, Dirk Nowitzki aveva appena compiuto 20 anni. Arrivava negli Stati Uniti pieno di speranze e di progetti. In tasca aveva le proposte al limite dell’indecente di molti college americani, ma, soprattutto, aveva l’invito del leggendario Rick Pitino, coach dei Boston Celtics, a partecipare a un workout privato con lui, per valutarlo in vista del Draft, e l’apprezzamento di Don Nelson, all’epoca coach dei Dallas Mavericks. Nella NBA di quel periodo era molto raro che un giocatore che non fosse passato per la trafila del college fosse scelto al Draft, o almeno che fosse scelto con una pick alta. A questa sorta di “regola di base” nel caso di Dirk andava sommata anche la diffidenza che, da sempre, circondava gli International Players nella lega. Proprio per questo Pitino aveva voluto l’occasione di vederlo in prima persona. Gli bastarono 45 minuti per innamorarsi del teutonico. Pitino si profuse in complimenti e paragoni d’alto livello, scomodando addirittura il nome di un mostro sacro come Larry Bird, leggenda dei Boston Celtics. Assicurò a Dirk Nowitzki che la sua scelta #10 al Draft sarebbe servita a prelevare lui. Ma Rick Pitino non aveva ancora fatto i conti con i progetti di un suo illustre collega. Perché, in quel del Texas, Don Nelson era andato oltre la semplice ammirazione per Dirk Nowitzki. Don Nelson aveva congegnato un piano, ed era pronto a far scattare la sua trappola.
La sera del 24 giugno 1998, nel General Motors Place di Vancouver c’erano tutti i rappresentanti delle franchigie NBA, tutti i migliori giovani talenti del basket mondiale, e c’era anche lui, Dirk Nowitzki. Don Nelson lo guardava con uno sguardo furbo, dall’altro lato della sala, già certo di qualcosa che il giovane tedesco ancora non sapeva: quell’ala grande dalle straordinarie capacità balistiche e di ball handling sarebbe andata a finire tra le fila dei suoi Dallas Mavericks. Don aveva già messo in moto gli ingranaggi del suo piano. Sapeva che i Milwaukee Bucks, detentori della scelta #9, avevano messo gli occhi sull’ala Robert Taylor, muscolare prodotto di University of Michigan che però era considerato tra i migliori prospetti di quell’anno e che, nelle previsioni pre-draft, oscillava intorno alla scelta #6. Scelta detenuta proprio dai Dallas Mavericks. Ma la genialità del piano di Don non si esauriva certo qui. Perché, da vecchio volpone della palla a spicchi qual’era, il coach dei Mavs aveva messo gli occhi anche su altro giocatore: la point-guard di riserva dei Phoenix Suns, un ragazzo canadese che rispondeva al nome di Steve Nash. Don sapeva che i Suns non avrebbero chiesto molto per separarsi da lui, e sapeva anche che alla franchigia dell’Arizona piaceva molto il profilo di Pat Garrity, ala forte da Notre Dame che tutti i mock draft ponevano tra le scelte basse del primo turno. Come, ad esempio, la scelta #19, che i Milwaukee Bucks avevano ottenuto, via trade, dai Cleveland Cavaliers. Di tutto questo notevole mucchio di informazioni, che probabilmente nessuno sarebbe riuscito a collegare tra loro, Don fece una fantastica occasione. Quando arrivò il suo turno, con la scelta #6, draftò proprio Robert Taylor, poi si presentò all’establishment dei Bucks con una proposta: avrebbe ceduto Taylor a Milwaukee se loro avessero fatto due cose per lui, ossia, usare la loro scelta #9 per bruciare Pitino e scegliere Dirk Nowitzki, e usare la #19 per scegliere Pat Garrity. Quindi Don avrebbe accettato i due giocatori in cambio del tanto agognato Taylor. I Bucks accettarono, e Don si spostò più in là, dall’establishment dei Phoenix Suns, a cui propose uno scambio alla pari: Pat Garrity per Steve Nash. Anche i Suns accettarono. Così, quando arrivò il turno dei Milwaukee Bucks, Dirk Nowitzki salì sul palco, con il cappellino con l’emblema del cervo appoggiato sui capelli biondi, ma con lo sguardo rivolto a Don Nelson, che sogghignava in un angolo, forse nemmeno del tutto consapevole di che tipo di capolavoro avesse appena compiuto.