Non dev’essere stato male vivere a Los Angeles nei ruggenti anni ’80: città in espansione, in una zona calda e soleggiata della nazione forse più ricca e potente al mondo, in un periodo storico notoriamente favorevole al blocco occidentale e intriso di quell’ottimismo misto ad arrivismo che creerà la cultura yuppie. Se poi eri tifoso dei Lakers, anche dal punto di vista cestistico difficilmente avresti potuto chiedere di meglio: Magic, Kareem, Worthy, quel vecchio diavolo di Pat Riley a dirigere l’orchestra, lo Showtime insomma. Una macchina perfetta, efficace quanto spettacolare, che in barba a rivali altrettanto attrezzate (Celtics di Bird su tutte), sfornò per tutto il decennio grandi stagioni, Finali, titoli (5) e pure il primo repeat a quasi vent’anni di distanza dall’ultimo.
E così, quando anche l’anno successivo a quello storico repeat i Lakers disputarono l’ennesima stagione da incorniciare (57 vittorie e Magic MVP), nell’afoso giugno 1989 il terzo sigillo consecutivo sembrava abbastanza auspicabile, tanto più che i gialloviola si presentavano all’ultimo atto con un impeccabile 11-0 nei playoff. Dall’altra parte c’erano invece i Bad Boys di Detroit, gli originali, squadra fisica e ostica ma già sconfitta un anno prima all’ultimo atto, peraltro non senza difficoltà (4-3). Insomma, Finale non scontata ma favori del pronostico tutti in California, e tifosi già pronti all’ennesima parata celebrativa. Uno in particolare, tale James Thomas, era sicurissimo dell’imminente threepeat. Trasferitosi a Tacoma, Washington, ma nato e cresciuto a Inglewood, a due passi dal Forum, e dunque tifosissimo gialloviola fin dalla più tenera età e presente sostanzialmente per tutto quel fantastico periodo, questo giovane afroamericano non voleva sentir parlare di sconfitta; ed era talmente sicuro del trionfo da scommettere con un amico, che lo metteva in guardia dalle insidie che i Lakers avrebbero trovato nella rivincita coi ragazzacci della Motown, che in caso di sconfitta avrebbe chiamato il figlioletto di pochi mesi Isiah, rendendolo un omonimo della star di quei Pistons. Secondo James, il piccolo non sembrava correre particolari pericoli anagrafici, ma il destino a volte ha altri piani. Poco dopo il via della serie infatti si dovettero fermare per infortunio sia Byron Scott che soprattutto Magic Johnson; l’ormai quarantaduenne Kareem poté poco da solo contro gli agguerriti avversari, che si aggiudicarono serie e titolo addirittura con un sorprendente sweep. Allo sconsolato James non restò che mantenere la propria parola, ottenendo solo di aggiungere una “A” grazie all’intercessione della madre che voleva renderlo almeno un nome biblico (e soprattutto non perfettamente identico a quello del play avversario); e così il suo pargoletto prese il nome di Isaiah Jamar Thomas.
Nome biblico, appunto: Isaia, per chi non fosse esattamente il più assiduo lettore delle Scritture, è forse il più famoso tra i profeti dell’Antico Testamento. E in quel nome, tanto casuale quanto pesante per un cestista, sembra celarsi una profezia, un destino scritto fin dai primi tiri a canestro effettuati in quel di Tacoma, contea di Pierce, una cinquantina di chilometri da Seattle, dal piccolo figlio di James. Piccolo in tutti i sensi, vista la ridotta taglia fisica che sembrerebbe scoraggiare l’attività cestistica; ma lo sport di famiglia è la pallacanestro, e il piccoletto ci sa pure fare, compensando il metro e 80 scarso con una sfacciataggine inversamente proporzionale all’altezza. Gioca ovviamente playmaker, interpretando il ruolo in modo piuttosto personale: assist pochini, ma punti a carrellate, in particolare con un mortifero arresto e tiro che si differenzia da quello del quasi omonimo Hall of Famer per la mano di rilascio, meno per l’efficacia. L’ultimo anno di liceo alla South Kent School, nel Connecticut, in cui si è trasferito per motivi scolastici (non certo per una borsa di studio al merito), chiude a oltre 31 a sera, sbeffeggiando anche avversari ben più dotati fisicamente. E’ la primavera 2008, ma si sa già dove avrebbe predicato Isaiah, visto che già 2 anni prima, l’anno dopo l’uscita dall’ateneo di Nate Robinson, aveva annunciato l’intenzione di diventarne l’erede sul campo della University of Washington, e di tornare così a casa.
In casa Huskies il futuro Krypto-Nate era diventato un’autentica leggenda, trascinando anche la squadra alle Sweet Sixteen a suon di giocate ad alta quota e distinguendosi pure nel football. Touchdowns a parte, Thomas ne diviene l’erede designato, in quanto prodotto locale e con caratteristiche fisiche, tecniche e attitudinali estremamente simili, forte addirittura della benedizione del suo predecessore, che gli consegna la sua vecchia maglia numero 2. E Isaiah non viene certo schiacciato dal peso di una simile responsabilità: con la faccia tosta che l’ha sempre contraddistinto, diventa immediatamente profeta in patria e chiude la stagione da freshman a oltre 15 di media, che diventano quasi 17 nel suo secondo anno. Nell’anno da junior invece mostra anche notevoli doti da clutch player quando prima massacra Arizona nella finale della Pac-10 (28 punti) e poi infila il buzzer beater che vale il titolo divisionale. Nonostante prospettive NBA ancora piuttosto incerte, alla fine del terzo anno Thomas opta per il grande salto, lasciando la squadra guidata da coach Lorenzo Romar nelle mani del futuro Raptor Terrence Ross. Non saranno estranei nella sua scelta di lasciare in anticipo il college il ritorno in campo da un infortunio di Abdul Gaddy (oggi già nel dimenticatoio) e il reclutamento di Tony Wroten, guardie che gli avrebbero probabilmente tolto spazio, nonostante oggi ciò possa far sorridere.
Il ragazzo di Tacoma dichiarerà successivamente che “qualsiasi cosa avessi fatto rimanendo al college, le mie possibilità di scelta al Draft non sarebbero aumentate”. Profezia stavolta difficile da credere, visto che più in basso di così non si poteva andare, almeno se Stern o Silver prima o poi fanno il tuo nome. Al Draft 2011 le scelte passano, ma quel nome che suona tanto bene a un appassionato di NBA non lo fa nessuno; sembra già rassegnato alla trafila dei provini per gli undrafted nelle varie squadre, quando i Sacramento Kings, con l’ultimissima pick disponibile, decidono di provare a vedere cosa può fare quel piccoletto tra i grandi.
Papà James magari non sarà soddisfattissimo della destinazione, ma almeno il figliolo è stato scelto, anche se seconda scelta, peraltro numero 60, significa contratto non garantito, taglio sempre in agguato (a volte già durante il training camp), tanta D-League, tantissima panchina per poi giocarsi tutto in pochi minuti di garbage time. Ma Thomas è giocatore di tutt’altra pasta, e ha un destino in quel nome da realizzare: non solo non viene tagliato, ma trova velocemente spazio in rotazione fin dal primo anno, complice l’assenza di un vero playmaker in squadra (spesso viene dirottato Tyreke Evans, ma talvolta si vede anche Salmons, Fredette o addirittura Pooh Jeter, per capire a che passi siamo). E ad ogni partita che passa, Isaiah sta in campo di più e mette a referto numeri sempre migliori, chiudendo l’anno da rookie a oltre 11 di media e diventando addirittura il Rookie del mese in febbraio e aprile (quasi superfluo specificare che non era mai successo a un giocatore scelto per ultimo). E non è certo un fuoco di paglia, visto che al secondo anno le sue cifre aumentano ancora (quasi 14 a sera e career high di 34 ai campioni di Miami) e partecipa anche al Rising Star 2013, incluso tra i migliori giocatori ai primi 2 anni di NBA. Ma soprattutto, con le sue giocate e la sua energia sul parquet si conquista in breve tempo un posto nei cuori dei sempre calorosissimi tifosi di Sacramento. Insomma, nel caos tecnico e societario in cui versano, i Kings tirano incredibilmente fuori il coniglio dal cilindro.
Il coniglio si rileverà una sorta di piccolo Re Mida nella stagione successiva, quando Thomas si consacra definitivamente come uno dei migliori pocket scorer mai visti, con medie ben superiori a quelle tenute dai vari Muggsy Bogues, Spud Webb ed Earl Boykins: nessuno di loro infatti riuscì mai a scollinare sopra il muro dei 20 punti a gara, come riesce a fare Isaiah nel terzo anno nella Lega, tirando pure con un ottimo 45% dal campo e aggiungendo anche 6.3 assist, come detto non esattamente la specialità della casa. La free agency imminente e la voglia di procacciarsi un accordo migliore del minimo salariale da seconda scelta non sono estranee all’exploit del figlio di James, che infatti strappa un contratto ben più sostanzioso con i Phoenix Suns.
Vero che la moderna NBA tende sempre più a privilegiare il gioco veloce e gli esterni con punti nelle mani piuttosto che i lunghi d’area fisici ma troppo statici, ma forse in Arizona nell’estate 2014 esagerano un po’, ritrovandosi in squadra in contemporanea Goran Dragic, Eric Bledsoe e Isaiah Thomas. Altroché House of Guards oggi situata nella Capitale, la squadra è troppo sbilanciata verso la trazione posteriore (tanto più considerate le caratteristiche piuttosto accentrative dei tre) ed è proprio l’ex Husky, divenuto intanto sesto uomo di lusso, a farne le spese, finendo a Boston nel giorno della trade deadline. Anche ai Celtics coach Brad Stevens continuerà a utilizzarlo in uscita dalla panchina, con ottimi risultati: i numeri non saranno più quelli di Sacramento (comunque circa 17 di media a fine anno, di cui 19 nelle 21 gare in Massachusetts), ma questi Celtics rivoluzionati a stagione in corso cambiano marcia e, pur nella non impossibile Eastern Conference, agganciano i playoff dopo un anno di purgatorio. Thomas, dal canto suo, chiude secondo nella classifica del Sixth Man of the Year dietro al solo Lou Williams.
In queste prime gare della nuova stagione il folletto di Tacoma ha spesso ritrovato il quintetto e sta di nuovo scollinando quota 20 punti a gara. Non c’è da stupirsi: è come se in quel nome, affibbiatogli da uno strano scherzo della sorte, fosse racchiusa la profezia della sua vita, come se quell’incredibile sweep avesse impresso a fuoco il suo luminoso destino. Intendiamoci, Isaiah non è Isiah, nello spelling come nella grandezza cestistica, e non lo sarà mai; ma l’agonismo fuori dal comune, la voglia di vincere e di emergere nonostante condizioni avverse (biografiche per il prodotto di Chicago, più prettamente tecniche per quello di Tacoma) sono le stesse, ad accomunarlo a una leggenda con cui oggi, peraltro, ha un legame di stima e amicizia reciproche. Perchè, che si tratti di strani esoterismi o, più realisticamente, di semplici coincidenze unite al lavoro e all’incrollabile fiducia nei propri mezzi, con un nome del genere non puoi che essere protagonista nell’NBA, anche partendo dall’ultima scelta. E se il prezzo da pagare per quel nome profetico è una scommessa persa, di certo anche papà James non avrà potuto che benedire quel threepeat mancato.