La scorsa stagione Utah, un po’ per sfortuna e un po’ per demerito tecnico, ha deluso. In molti si aspettavano la squadra guidata da coach Snyder e capitanata dal terzetto Hayward-Favors-Gobert già in grado di animare la postseason a Ovest. I Jazz però, con un record di 40-42, hanno solo sfiorato i playoff; quest’anno, con il ritorno di Exum e Rodney Hood atteso a una conferma ad alti livelli, non avranno scuse. A Salt Lake City, nonostante l’interregno della cover band Williams-Boozer, si aspetta da troppo tempo il comeback del Jazz di Stockton e Malone.
Rewind
La stagione 2015-2016, nello Utah, è iniziata con la pessima notizia dell’infortunio al crociato del ginocchio sinistro occorso a Dante Exum. Il play sophomore, dopo un’annata d’esordio fatta di alti e bassi, era atteso a un miglioramento netto; coach Snyder è stato costretto a rivedere i suoi piani per la posizione di point guard e ad alternare nel ruolo i due onesti mestieranti Shelvin Mack e Raul Neto (oltre al separato in casa Trey Burke). Problemi fisici di una certa entità hanno colpito anche la prevista shooting guard titolare Alec Burks (solo 31 partite in stagione per lui); le assenze combinate di Exum (in grado di giocare anche da “2”) e Burks hanno però aperto la strada alla vera nota lieta della campagna 2015-2016: quel Rodney Hood in grado di chiudere con 14.5 punti di media e 79 partite in quintetto su 79 disputate in stagione. Consolazione tutto sommato magra di fronte alle aspettative roboanti paventate dalla franchigia a a inizio annata.
I Jazz hanno mancato i playoff di una sola partita, ma hanno dato la sensazione di vivere pericolosamente in bilico tra consapevolezza ed entropia. Anche il dinamico duo di lunghi Favors-Gobert è stato vittima di infortuni, mentre la star Hayward ha dimostrato una volta per tutte di essere uno dei pochi veri all-around players rimasti in NBA, ma non ha centrato la consacrazione a leader d’elite. Può essere che il mancato raggiungimento della postseason, in realtà, sia stato un bene per le giovani stelle dei Jazz. Difficilmente Utah avrebbe fatto strada e, visto come sono andate le cose, ha invece l’opportunità di presentarsi al 2016-2017 con un bagaglio di esperienza e motivazioni superiore.
Mercato
I Jazz si sono mossi subito per consolidare la traballante posizione di playmaker e hanno ingaggiato il veterano George Hill (in uno scambio a tre con Pacers e Hawks) con uno dei primi movimenti di mercato dell’intera offseason 2016. Non si può parlare di fretta, in quanto Hill corrisponde esattamente al profilo che i Jazz stavano cercando: una point guard di buon livello, con esperienza e dietro alla quale far crescere il rientrante Exum. L’arrivo di Hill coinciderà quasi sicuramente con il tentativo di liberarsi almeno di Trey Burke. Il quintetto per la stagione 2016-2017 è gia pronto (Hill-Hood-Hayward-Favors-Gobert) e, a meno che i Jazz non siano di nuovo colpiti dalla sfortuna, a questo punto si tratterà di centrare qualche obiettivo mirato durante la free agency. Servono, in particolare, un’ala piccola e un centro di riserva (Joe Ingles e Jeff Withey non convincono). Per il ruolo di swingman dalla panchina si è parlato di Jared Dudley e Solomon Hill, entrambi giocatori di buona affidabilità e abituati a lavorare dietro le quinte. Pure di centri potenzialmente interessanti per Utah sul mercato ce ne sono parecchi: da monitorare con attenzione almeno i nomi di Marreese Speights, Timofey Mozgov e Nenê.
I Jazz, in realtà, avrebbero spazio salariale in abbondanza e la possibilità di offrire il massimo salariale a uno dei grossi nomi della free agency (Durant, Barnes, DeRozan, solo per citare quelli che potrebbero avere più senso tecnico-tattico nello scacchiere di coach Snyder). Un’eventualità del genere si verificherà solamente se il front office di Utah dovesse decidere definitivamente di non poter contare su Hayward come prima opzione; solo KD, dei giocatori a disposizione sul mercato, sarebbe però un improvement netto. E della storica difficoltà di attrarre free agent di livello nello Stato dei Mormoni si è parlato in lungo e in largo.
Draft
L’arrivo di George Hill ha significato il sacrificio della scelta numero 12 al Draft 2016. L’idea dei Jazz, contraria a quanto fatto nel recente passato, è stata quella di scambiare talento futuro con certezze presenti. Difficile sindacare, considerando anche l’upside non eccezionale presente in questo draft (primissime scelte a parte). Delle tre pick al secondo giro – Bolomboy, Paige, Wallace – il solo (atleticissimo) Bolomboy ha una seria chance di entrare nel roster dei Jazz della prossima stagione.
Futuro
I Jazz sono a un bivio: insistere su un core di giocatori giovani e di assoluto talento ma che ancora non è riuscito a disputare un’annata intera senza infortuni pesanti e problematiche tecniche, oppure tentare di saltare il fosso senza rincorsa accaparrandosi un big via free agency o trade. Probabile che per quest’anno Utah vada avanti con il proprio nucleo, contando su un po’ fortuna in più e sulla maturazione definitiva degli elementi cardine a roster (Hayward e Favors a parte: Gobert può diventare un Mutombo 2.0, Hood è il sicario dal perimetro che mancava, Lyles ha disputato una promettentissima annata da rookie ed è già ora la perfetta incarnazione del lungo “two way” che va di moda nell’NBA moderna, Exum deve riprendere confidenza con sé stesso, coi compagni e col parquet, ma ha le stimmate del play à la John Wall).
Poi certo, se la stagione 2016-2017 dovesse concludersi con un nuovo fallimento e senza l’arrivo dei playoff, a quel punto il front office di Salt Lake City dovrebbe rivedere i propri piani. Il dubbio che Hayward e Favors siano più una seconda e una terza opzione offensiva che una prima e una seconda rimane. E, nello Utah, quella prima e quella seconda opzione di livello assoluto non si vedono dai tempi di Malone e Stockton. I loro eredi, se non sono già in casa, busseranno a breve alla porta? È l’unico modo perché il Jazz torni a suonare nella città dei Mormoni.
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