“Come potrò dire a mia madre che ho paura?”
“Il cantico dei drogati” è senza dubbio una delle più belle e, al contempo, delle più struggenti e dolorose canzoni tra quelle scritte da De André nella sua lunga – ma mai abbastanza – e meravigliosa carriera di cantautore. Il ritmo è compassato, la voce bassa e accorata, il tema incredibilmente delicato, contrariamente ai versi e alle parole che colpiscono l’ascoltatore in maniera diretta, quasi brutale, fino a riempirgli il cuore di una malinconica mestizia, uno di quei sentimenti solo transitori, ma che lasciano un segno duraturo e indelebile rovesciando qualsiasi prospettiva, qualsiasi punto di vista apparentemente ragionevole
Il testo apre “Tutti morimmo a stento”, un album nel quale la morte è il tema fondante e centrale: non però quella fisica, la “morte cicca con le ossette” come la definisce Faber stesso, ma quella “psicologica, morale, mentale”, quella nella quale, consapevolmente o meno, si imbatte qualsiasi uomo più volte nel corso della sua esistenza perdendo un familiare, un amico, un amore, o anche semplicemente trascorrendo la vita nel rattristante susseguirsi di definitive e ineluttabili cesure di cui questa è composta, e che spesso si fa molta fatica ad accettare.
Quella morte subdola e resistente, ancora più difficile da affrontare rispetto a quella naturale, e che dopo essere arrivata pretende qualcosa che non tutti gli esseri umani riescono ad avere e a ritrovare dentro loro stessi: la volontà di rinascere, di “reinventarsi “ e di tornare a vivere.
Sì, Lamar Odom la conosce molto bene quella morte, così come la paura che da essa sempre deriva. Ciò che non ha è una madre con cui condividerla, quella paura.
Lamar Odom muore la prima volta a 12 anni, nel luglio del 1991, quando mamma Cathy, dopo mesi di inauditi dolori, passa a miglior vita a causa di un cancro al colon. “Be nice to everybody” sono le ultime parole dette sul letto di morte al giovanissimo figlio, che per tutta la vita tenterà di realizzare l’ultima filantropica volontà della donna che lo aveva messo al mondo. Proprio a lei, infatti, intitola la Cathy’s Kids Foundation, un’associazione fondata per garantire denaro e sostegno a quei giovani ragazzi costretti a crescere nelle realtà difficili e “under-privileged” dei ghetti losangelini e newyorkesi, realtà ben note a chi ha dovuto trascorrere la sua intera infanzia nel Queens, tra le carezze e gli insegnamenti della nonna Mildred, venuta dal Sud per salvarlo dalla strada dopo la morte della figlia, e le siringhe di eroina dalla quale il padre era da sempre stato dipendente, in mezzo ai travagli che spesso si è costretti a fronteggiare in quei “quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”, per riprendere un altro verso deandreiano.
Lamar però non si lascia coinvolgere e, grazie alle cure e alle benevole attenzioni della nonna, riesce in qualche modo a tenersi fuori dai “brutti giri” della suburb; lo studio, però, proprio non riesce a farselo piacere, e per un motivo molto semplice e chiaro, sbattuto in faccia agli insegnanti quasi con strafottenza tutte le volte che questi finivano per riprenderlo, durante le lezioni, nel vederlo scrivere migliaia di volte il proprio nome sul libro, per perfezionare una firma, un autografo che un giorno qualcuno gli avrebbe sicuramente chiesto con fervente desiderio.
‘Giocherò in NBA. Non mi interessa nient’altro. Questo è quello che farò.’
Cionondimeno, a causa degli scadenti voti scolastici, alla fine del primo anno è costretto a lasciare la Christ The King Regional High School, dove per la prima volta aveva mostrato veri e propri lampi di genio cestistico, per trasferirsi prima alla Redemption Christian Academy, e infine nel lontano Connecticut, alla St. Thomas Aquinas High School, dove incontrerà uno degli uomini che maggiormente influenzeranno la sua travagliata e oscillante esistenza, e con il quale finirà per instaurare anche un sincero e profondo rapporto di amicizia: il coach Jerry DeGregorio. Sotto la sua guida Lamar diventa molto presto uno dei giocatori più osservati e apprezzati di tutto il panorama scolastico statunitense, venendo nominato nel 1997 “Player of the Year” dal Parade Magazine e trasformandosi in brevissimo tempo in uno dei maggiori talenti della sua annata.
L’anno successivo deve essere quello della definitiva consacrazione al college ed effettivamente così sarà. Eppure anche in questa occasione le cose – almeno inizialmente – non vanno come devono andare.
L’Univerisity of Las Vegas a pochi giorni dall’inizio dell’anno accademico gli ritira la borsa di studio in seguito ad un articolo pubblicato su Sports Illustrated che contestava la validità del punteggio del suo test(effettivamente molto alto per uno studente che mai aveva brillato per straordinari meriti scolastici). Il miglior prospetto della stagione di pallacanestro appena conclusa, ricercato da tutti i migliori e più prestigiosi college del paese solo fino a qualche mese prima, è letteralmente “a spasso”. Tuttavia, forse per l’unica occasione nella vita di Odom, il male non viene per nuocere.
Sull’altra sponda del paese infatti, nel lontano Rhode Island, il neo-coach dei Rams Jim Harrick, licenziato da UCLA due stagioni prima, sta formando il suo nuovo coaching-staff e per il ruolo di vice allenatore ha scelto proprio quel Jerry DeGregorio, che, venuto a conoscenza della possibilità di portare Lamar in New England, non ci pensa due volte e lo indica come la conditio sine qua non per il definitivo salto di qualità della squadra. La decisione è semplicissima.
“Coach Harrick era lì, Jerry era lì. La scelta era ovvia. Quella era casa mia”.
Quello che Odom mostra nel suo primo e unico anno al college va oltre tutte le più rosee aspettative, oltre le più ottimistiche e favorevoli previsioni.
17.6 punti di media, Atlantic 10 Rookie of the Year, MVP del torneo e vittoria in finale contro Temple per 62-59. La firma sulla tripla decisiva allo scadere non c’è nemmeno bisogno di leggerla. Le porte della NBA si spalancano, anche se solo quelle secondarie, di servizio: 20 giugno 1999, scelta numero 4, Los Angeles Clippers. Il ragazzo dal Queens ce l’ha fatta e la vita sembra davvero aver preso la giusta piega.
Ma nella vita di Lamar Odom niente è mai come sembra. Le apparenze sono ingannevoli, le certezze destinate a cadere in quel fuggente secondo che si interpone fra la speranza di aver finalmente trovato una dimensione stabile e duratura nella quale brillare, e la dura e cruda realtà, quella che Pat Riley ti sbatte in faccia un bel giorno quando ti dice che sì sei un ottimo giocatore, sì vieni dalla migliore stagione della tua carriera, sì la squadra, la franchigia, tutta Miami ti stimano, ti amano e ti ringraziano, ma dall’altra parte degli States vogliono cedere Shaquille O’Neal perché con quel Kobe proprio non riesce ad andare d’accordo, e quindi puoi prendere le tue cose e salire sul primo aereo per Los Angeles, magari portando con te anche Caron Butler e Brian Grant.
La cessione nell’estate del 2004 per Lamar è letteralmente un trauma.
Sono passati 5 anni dal suo ingresso in NBA: nel mezzo ci sono stati due anni straordinari ai Clippers, la marjuana, la sospensione, “This will definitely not happen again”, di nuovo la marjuana e di nuovo la sospensione, infine un infortunio che lo costringe a limitare la sua quarta stagione NBA a 29 partite. Lamar è allo sbando, un’altra volta.
Come se tutto ciò non bastasse, il 29 giugno del 2003 la Signora con la falce bussa di nuovo a casa Odom per prendere sottobraccio l’adorata nonna Mildred e portarla via da questa vita.
Un’altra morte. La sensazione di aver smarrito la strada.
Poi la speranza a Miami nella stagione 2003-2004, Dwayne Wade, le parole di Riley che lo paragona a Magic, i Playoffs e la prima serie vinta, la vana illusione di aver finalmente trovato il proprio posto.
E invece niente, non se ne parla, neanche questa volta. Prima arriva l’inaspettata cessione poi ancora la delusione del bronzo ad Atene 2004, con l’oro che va alla Generaciòn Dorada di Ginobili, Scola, Nocioni e Delfino. Si ritorna a Los Angeles e questa volta la porta è quella principale, quella dei Lakers di Kobe Bryant. Nella valigia però ci sono più rimpianti che reali aspettative.
Il primo anno ai Lakers non migliora la situazione, nonostante le statistiche del giocatore del Queens siano decisamente incoraggianti e promettenti, con una doppia doppia di media da 15.2 punti e 10.2 rimbalzi. Due mesi fuori per un infortunio alla spalla, Rudy Tomjanovich che lascia a metà stagione e Lakers fuori dai Playoffs per la quinta volta nella storia della franchigia.
Ma a volte ritornano. E quando all’inizio della stagione 2005-06 Phil Jackson si risiede sulla panchina della franchigia gialloviola, Lamar ritrova un mentore, ritrova una casa, ritrova finalmente una dimensione.
Il primo anno di Odom sotto la guida di Coach Zen è qualcosa di strabiliante: nella Regular season è in campo praticamente sempre( 40.3 minuti di utilizzo), chiude sfiorando nuovamente la doppia doppia( 15 punti e 9 rimbalzi di media) e incrementando notevolmente il numero di assistenze per i compagni( 5.5 assist a partita). Nondimeno, ciò che realmente delizia qualsiasi appassionato di pallacanestro – ancor prima di qualsiasi tifoso gialloviola – non sono i numeri che questo mette a referto.
E’ ciò che Lamar fa sul parquet. Vederlo giocare è una meraviglia per chiunque ami questo sport: un’ala grande che può giocare da centro, cambiare sui 3, tirare come una guardia e portare palla come un PM. E’ la rivoluzione.
Ai Playoffs, come se non bastasse, le cifre aumentano notevolmente: 45(quarantacinque!) minuti di utilizzo, 19+11 di media con 5 assist all’attivo. Dall’altra parte, però, il signor Steve Nash e i Phoenix Suns di Mike D’Antoni sono inarrestabili e imbattibili, anche se privi di uno Stoudemire alle prese col primo dei tanti travagli fisici che affliggeranno la sua sventura carriera. Sconfitta al primo turno in 7 gare, in una delle serie più belle dell’ultimo ventennio, e saluti all’anno prossimo. Con le stesse motivazioni, le stesse aspettative, le stesse speranze. Tutto uguale. Manca solo una cosa quando la nuova stagione NBA prende il via. Manca qualcuno.
Un’altra morte, sempre “con un anticipo tremendo”.
Corre l’anno 2006 quando Jayden Odom, figlio di appena sette mesi avuto dall’allora compagna Liza Morales, chiude nella culla i suoi innocenti e ingenui occhi, per non riaprirli mai più. Per uno strano scherzo del destino è il 29 giugno, lo stesso giorno nel quale tre anni prima era venuta a mancare la nonna Mildred. Si tratta di SIDS(Sudden Infant Death Syndrome), sindrome della morte improvvisa del lattante, un fenomeno ancora sconosciuto a tutta la comunità medica e scientifica, assolutamente inspiegabile: semplicemente un bambino nel primo anno di vita, apparentemente e medicalmente sano sotto ogni punto di vista, muore, da un giorno all’altro, senza un evidente e riscontrabile motivazione. Lamar è distrutto, e il pensiero di chiudere definitivamente con il basket è ben radicato nei suoi pensieri.
Con l’aiuto della famiglia, dei compagni di squadra, del coach e di tutta Los Angeles, Odom però rinasce di nuovo e ritrova la forza di tornare sul parquet. La stagione NBA 2006-2007 è la fotocopia della precedente, non cambia proprio nulla: stessa stagione straordinaria in termini di singolo( anche se limitata da un infortunio che ne circoscrive l’utilizzo a 56 partite), stessa stagione mediocre dei Lakers, stesso settimo posto nella Western, stesso primo turno contro i Suns, stesso risultato, questa volta in 5 partite. Eppure anche in questo momento così logorante e mentalmente sfibrante, si riesce a cogliere la promessa di un avvenire che sembra finalmente poter riservare a Lamar i successi che meriterebbe. Perché anche se senza Shaq non è ancora riuscito a vincere, Kobe si sta prendendo in mano la Lega. Perché da Memphis sta per arrivare Pau Gasol. Perché Andrew Bynum ormai è un centro dominante. Perché tutti, proprio tutti, sono sicuri che l’annata 2007-2008 sarà quella della definitiva e totale consacrazione dell’ala grande del Queens. Non manca niente, è tutto pronto.
La stagione successiva è il preludio. I Lakers dominano la Western Conference, Bryant è l’MVP, arrivano finalmente le Finals ma l’anello va a Boston, tra le dita di quei Big Three che tante gioia regaleranno ai Celtics. Nei due anni successivi, però, non c’è storia per nessuno, né per i Magic di Howard, né tanto meno per i verdi del Massachusetts, nella attesa e agognata rivincita.
Lamar è in uno stato di forma straordinario: chiude i Playoffs 2008-2009 tirando con più del 50% dal campo, sia da 2 che da 3, è ormai stabilmente l’uomo più decisivo dell’intera lega quando si parla di entrare a partita in corso. Nel 2011 Nowitzki è imbattibile e l’anello va a Dallas, ma Odom vince finalmente il meritatissimo Sixth Man of the Year.
Los Angeles lo ama quanto – e forse più, in alcuni momenti – di Kobe stesso.
Il cerchio sembra davvero essersi chiuso.
Ma in un attimo la storia si ripete e fredda, crudele, definitiva torna di nuovo Lei. La Morte. Due volte.
Succede tutto in due giorni. Due orrendi, interminabili giorni. E’ il luglio del 2011 e Lamar sta ormai ultimando i preparativi per la partenza con destinazione New York, in vista di un lancio commerciale concordato con la Nike qualche mese prima. Poi arriva una chiamata. Una chiamata che cambia tutto, non cambiando niente. Perché quando mette via il telefono, la destinazione non è mutata, è sempre la stessa. Ciò che è cambiato è lo stato d’animo con cui affrontare il lungo viaggio: non più quello annoiato di chi sta andando ad uno di quegli incontri di routine tanto monotoni quanto incredibilmente arricchenti, ma quello mesto e malinconico di chi, con un vestito nero in valigia, deve recarsi al funerale di un ragazzo assassinato con un colpo di pistola all’età di 24 anni. Un cugino nell’albero genealogico, un fratello nella vita.
Non basta però. Il giorno dopo il funerale, infatti, Lamar decide di cogliere l’occasione data dalla triste circostanza per tornare nel Queens, il luogo dove tutto è cominciato, dove è cresciuto il ragazzo e dove adesso sta per tornare l’uomo. E’ comodamente seduto sul sedile posteriore del suo SUV dove si sta facendo addirittura tagliare i capelli. La macchina svolta a sinistra. Poi un rombo improvviso, e quella maledetta motocicletta su una ruota sola, sbucata dal nulla. Evitarla è impossibile anche per l’esperto autista di Odom. Un botto, la moto che sbanda, un altro botto. Un corpo solo sulla moto, ma due corpi per terra: quello illeso dello sciagurato e sconsiderato motociclista, e quello immobile, privo di sensi, di Awsaf Alvi Islam, 15enne di origine araba che passeggiava serenamente, inconsapevole, coi sogni e le speranze di tutti i ragazzi della sua età, prima di venir travolto dalla moto ormai fuori controllo. Il posto sbagliato al momento sbagliato. Ventiquattro ore di agonia e sofferenza, poi l’ultimo respiro.
La morte sembra essere sempre intorno a me. Ho seppellito persone per moltissimo tempo. Quando è stato il turno di mio figlio, probabilmente non ho smesso di piangere prima di un anno e mezzo.[…] Penso che gli effetti di vedere mio cugino morto e poi di vedere morire questo ragazzo, mi abbiano abbattuto. Mi sento così debole”
Nei giorni immediatamente successivi Odom a stento riesce a mangiare qualcosa. Sembra non farcela davvero più, sembra che il limite sia ormai superato. Il lockout che rimanda l’inizio della stagione 2011/2012 in qualche modo lo favorisce, garantendogli un periodo extra di riposo e riassestamento.
I Lakers, però, non hanno nessuna intenzione di aspettarlo, e per buona gratitudine decidono di privarlo anche dell’unica certezza rimastagli spedendolo a New Orleans, il 9 dicembre 2011, nella trade che contestualmente portava a LA niente di meno che Chris Paul. Definirlo disperato all’annuncio dello scambio non rende l’idea nemmeno lontanamente. Il resto, d’altro canto, già lo si conosce.
L’NBA blocca tutto, la trade salta, Paul finisce a Los Angeles sponda Clippers e Lamar rimane in gialloviola. Ma qualcosa si è rotto definitivamente. Chiede subito la cessione e la ottiene due giorni dopo, l’11 dicembre 2011, direzione Dallas Mavericks. Fine. Il resto della carriera di Odom ha veramente poca importanza, che si parli di Dallas, del ritorno ai Clippers o del Laboral Kutxa Baskonia. Perché la pallacanestro per quanto possa essere meravigliosa, per quanto possa costituire una dimensione totalizzante nella vita di una determinata persona, per quanto possa essere svolta a livelli altissimi, con contratti da capogiro e sponsor milionari, rimane pur sempre uno sport, un gioco. Adesso invece è la vita di Lamar ad essere in pericolo. E la vita no, quella non è mai un gioco.
Non lo è neanche l’eroina, quella che, nel luglio del 2015, dopo avergli portato via il padre, causa la morte di Jamie Sangouthai, il suo migliore amico sin dall’infanzia nel Queens, la sua unica famiglia dopo la morte della madre. Non lo è il crack, sostanza dalla quale è ormai irrimediabilmente dipendente da qualche anno. E non lo è nemmeno la cocaina, quella che consumata in un mix potenzialmente – e forse volutamente – autodistruttivo con alcool e viagra, lo manda in coma nell’ottobre dello stesso anno, ad un passo dal baratro definitivo, tra le ceneri di una vita che sembra ormai andare avanti solo per inerzia, alla ricerca del momento risolutivo. Questa volta sembra davvero finita. Poi la ripresa, la riabilitazione, la speranza che Lamar ce l’abbia fatta ancora, che sia rinato di nuovo. E invece no, non questa volta.
Le ultime notizie su Odom parlano infatti di un uomo rimasto solo, di nuovo in preda all’alcool, alla droga e agli strip clubs di bassa lega. Parlano di un cervello ormai irrimediabilmente danneggiato che non gli consentirebbe di prendere decisioni lucide e razionali, di una “spirale fuori controllo”, di una morte ormai incombente in caso di mancata riabilitazione. Di un presunto “death wish”, desiderio di morire, come racconta Guillermo Castillo, il padre del suo defunto migliore amico.
Raccontano di una storia triste che presto potrebbe avere un esito ancora più cupo. Di un “inverno” che sembra ormai pericolosamente imminente, di una stella che non brilla più. Di “un vuoto nell’anima e nel cuore” e di una paura fredda, paralizzante, soffocante, di quelle da condividere con una madre che non c’è, che non c’è mai stata.
“Come potrò dire a mia madre che ho paura?”