E’ passato quasi un mese da gara 5, la grande vittoria degli Spurs all’AT&T Center , la gara che ha messo l’ipoteca per il quinto anello di Tim Duncan, capitano e anima della squadra. E il quarto dei Big Three, di nuovo campioni dopo quasi tre lustri di convivenza. E’ un giovedì da leoni a Milano, fa caldo e l’attesa davanti al Nike Lab in Foro Bonaparte fa partire sigarette come fossero ciliegie. Senza rendertene conto sei già alla quarta, in meno di venti minuti. Arrivano i primi addetti stampa. I più attrezzati hanno l’operatore e il microfono, i meno equipaggiati un computer e una dozzina di domande da fare all’ospite, anche lui neo campione NBA, Marco Belinelli.
Veniamo fatti accomodare all’interno, parcheggiati per qualche minuto in un’insolita sala d’attesa. Architetture pop fatte in legno, che ricordano le celle delle api, in cui sono incastonati tablet e cuffie per la musica, ci accolgono. L’ aria che si respira è quella di una mostra di arte contemporanea, non l’aula dove sta per tenersi una press conference.
Infatti la gentile PR di Marco, Elisa Guarnieri, ci invita a scendere le scale, la saletta per l’intervista è al piano inferiore. Tre divanetti non sono abbastanza per il nugolo di giornalisti che si stringe verso la poltrona al centro della stanza dove è seduto Marco. A noi tocca stare in piedi, le speranze per un’intervista one to one sono pari a zero, onore concesso soltanto alle grandi emittenti.
Il Beli è raggiante, accompagnato dal fresco Larry O’Brien Trophy che si è fatto tatuare sul braccio e reduce dalla breve esperienza in Brasile consumata tanto rapidamente quanto l’uscita degli azzurri. Dalla nostra, abbiamo un portatile da dover tenere scomodamente sotto braccio e una domanda a disposizione su quella dozzina che avevamo preparato. Elisa dà il via all’intervista.
“Il Trofeo è arrivato – e te lo sei anche tatuato, recentemente –, l’anello (virtualmente) pure. Ti sei già reso conto – anche grazie al calore dei tifosi – di quello che ti è successo?”
“Sinceramente, forse, non sto ancora ben realizzando ciò che è successo, perché si tratta di qualcosa di veramente importante per me, per la mia famiglia, i miei amici e, diciamo, per tutta l’Italia.
Questo è per me un sogno diventato realtà, perché – come sapete tutti quanti voi – il mio obiettivo è sempre stato quello di vincere e, alla fine, l’ho raggiunto e sono contento.
Essendo però arrivato a Bologna Lunedì, non ero ancora uscito di casa, se non per venire qui a Milano e rispettare una serie d’impegni, pertanto non riesco ancora a rendermi conto di ciò che è successo. So che si tratta di qualcosa d’importante, ma per me è molto difficile descriverlo, ma se uno mi conosce bene sa che per me essere arrivato a vincere il Titolo rappresenta veramente tutto.
Io sono cresciuto giocando a Basket e ho sempre seguito solo l’NBA. La guardavo con mio fratello, i miei amici, stando svegli fino a notte fonda, quindi è veramente qualcosa di…superfantastico.”
“E, invece, se ripensi al Marco adolescente? A 16 anni giocavi a Bologna con un tuo compagno di oggi [Ginobili ndr], a 17 prendevi lezioni da Tony Parker. Oltre a farli sentire “vecchi”, cosa si prova?”
“Sicuramente la mia è una storia particolare, perché comunque è una strana casualità che io abbia cominciato a 16 anni ad allenarmi con Ginobili e, adesso, abbia avuto la possibilità di vincere un titolo NBA in squadra con lui, che ha 36 anni, mentre io ne ho 28.
Però “vecchi” no! Non credo assolutamente di farli sentire vecchi, anzi sono estremamente orgoglioso di fare parte di questa famiglia, che sono gli Spurs. Ovviamente, per età, ci sono giocatori più esperti: Duncan (38 anni), Ginobili (36), Parker (32), ma sono giocatori veramente fantastici. Io non ho mai giocato con gente così forte, così professionale e con così tanta voglia di vincere, nonostante l’età e nonostante le vittorie precedenti.”
“Nello sci un Bolognese – Alberto Tomba – spopolò e diventò un’icona, anche per i giovani. Tu credi di poterlo diventare per i ragazzi che si avvicinano al mondo del Basket? Credi che ci possa essere un effetto-Belinelli, simile all’effetto-Tomba?”
“Spero di sì. Voi mi conoscete, sono un ragazzo umile, che va avanti per la propria strada. Però sì, ci spero, anche perché sono un ragazzo normale, come ognuno di voi, che ha lavorato sodo per esaudire un proprio sogno.
Già adesso che ho vinto il titolo e la gara del tiro da 3 punti sento molto calore, molto affetto da ragazzini che vogliono, magari, un giorno diventare come me.
Nel senso che comunque io, anche da un punto di vista fisico, non sono 213 cm x 130 kg, ma penso di avere un grande cuore e un grande carattere, per andare avanti. E questa, sinceramente, penso sia la forza, che mi ha portato a migliorare anno dopo anno come giocatore, fino ad arrivare a vincere un titolo.
So però anche che la strada è lunga, nel senso che sono consapevole di aver vinto il Titolo e di essere migliorato in questi anni – o almeno lo spero – sia sul campo, che fuori, però so di voler crescere maggiormente come giocatore e di voler vincere ancora.”
“Come fai a consumarti così tanto nel lavoro? Qual è il prossimo sogno per uno, che ha toccato il cielo?”
“Guarda, io ho sempre “sofferto”. Ho passato alcuni momenti negativi con delle persone che mi hanno criticato giustamente, perché comunque nello sport – così come nella vita – come esistono persone che dicono pose positive, esistono anche quelle che criticano.
E queste crticihe non mi hanno dato un fastidio assoluto, paralizzante, perché comunque sono sempre andato avanti per la mia strada e anzi le parole negative, anche quelle più pesanti – come: “Belinelli non è da NBA”, “Belinelli deve tornare in Europa”, “Belinelli è troppo magro”, “Belinelli non sa difendere” –, mi hanno dato la forza di dimostrare a tutte queste persone che si sbagliavano.
Ciò, però, non vuol dire che adesso mi senta arrivato, ma anzi voglio ancora fare di più. E, sicuramente, questa è una motivazione grande per me, per la quale ora mi trovo qui.
Un altro merito importante è poi da attribuire alla mia famiglia. Mia mamma, mio papà, i miei fratelli, i miei migliori amici, alcuni dei quali sono qua (ne indica un paio, fra cui anche Elisa Guarnieri, sua PR, che ci ha dato la possibilità di partecipare a questo incontro), che mi hanno dato veramente la forza di non mollare mai, credendo sempre in me ed è, forse, soprattutto grazie a loro che sono arrivato fin qua.
E poi [un po’ di merito] credo di averlo anche io, perché sono una persona con un carattere forte. È difficile che qualcuno mi abbatta, perché voglio vincere a tutti i costi e, se ci credo fortemente, cerco di realizzare i miei sogni.”
“Se ripensi alle cinque partite delle Finals, qual è la prima istantanea che ti viene in mente?”
“Beh sicuramente il mio primo minuto in campo in una Finale NBA, quando Pop ha chiamato il mio nome e ho messo piede sul parquet. Quello penso che sia un momento indimenticabile.
Poi la Bomba che ho segnato in Gara 3. Tutti mi han detto che è stato un tiro importantissimo, ma io, al momento, non so perché, non credevo lo fosse stato. Però ho in testa alcune scene, alcuni momenti delle partite. Soprattutto i cenni d’intesa con i compagni, gli abbracci in panchina, che dimostrano quanto siamo uniti. E penso che questo sia stato il motivo, per cui alla fine abbiamo vinto il titolo, perché dal primo all’ultimo siamo stati tutti importanti per raggiungere questo traguardo.”
“Marco, addesso noi siamo qua in tanti e non sempre sono state così numerose le persone che ti hanno seguito. È più il fastidio, che provi nel pensare che se non avessi vinto, non ci sarebbe tutta questa gente, o più la soddisfazione per averla portata qui?”
“Sicuramente la soddisfazione di avervi portato qua, ma soprattutto di aver dimostrato ad alcune persone, che sono anche presenti, che sono questo giocatore qua. Un giocatore che lotta, ci crede e, alla fine, vince.”
Le balls, come quelle che al primo turno contro Brooklyn durante i playoff dello scorso anno, gli sono costate 15.000 dollari di multa, non sono mai mancate. Dopo i venti minuti di domande allo sbaraglio, è tempo di foto e autografi. Si sprecano le pose esibendo il Larry O’Brien Trophy con la manica della t-shirt arrotolata. Il simbolo di un traguardo arrivato dopo molte tappe, da San Giovanni in Persiceto, agli Spurs, passando nella sua avventura NBA attraverso Golden State, Toronto, New Orleans e Chicago. Ai Bulls aveva raggiunto un contesto di semifinale di conference, arrivando a giocare 30-35 minuti di media, ma non ha esitato a cambiare squadra e ridurre il suo minutaggio per andare oltre e coronare un sogno che aveva fin da bambino.
Il primo l’aveva già realizzato il 28 giugno del 2007, quando venne selezionato come 18^ scelta assoluta dai Golden State Warriors. Il secondo era l’anello. Secondo per ordine cronologico, ma primissimo nel cassetto di Marco.