Pensate per un attimo a quello che volevate fare da grandi quando avevate, che so, 10 anni. Quali erano i vostri desideri all’epoca? Con un piccolissimo sforzo di immaginazione posso dirvi che qualcuno di voi voleva diventare un astronauta (e se avete voglia di spendere 200.000 $ potrete ancora permettervi un bel biglietto in turistica sul primo volo per Marte, si parte intorno al 2030), qualcun altro favoleggiava di una carriera professionistica in Serie A, vestendo la maglia della squadra del cuore e vincendo ogni trofeo immaginabile (riuscirci su FIFA 17 va bene, ma non benissimo), altri ancora, novelli Schumacher, sognavano di mettersi alla guida di una Ferrari da Formula 1 (tranquilli, anche se guidate un Pandino non vuol dire che magari, un giorno…) Ma confessiamoci la pura verità: tutti noi, da bambini, eravamo ossessionati da un unico, ricorrente, desiderio comune. Volevamo i superpoteri.
E non si sta parlando di roba tipo onde energetiche e diventare SuperSayan (no, non è vero, si parla anche di quello), ma di superpoteri all’americana, tipo quelli dei supereroi Marvel e DC. C’era chi voleva lo sguardo laser di Superman o la supervelocità di Flash, chi le ragnatele di Spiderman o la forza inumana di Hulk. Abbiamo fantasticato tutti, almeno una volta, di essere uno dei Fantastici 4 (ovviamente Johnny Storm, la Torcia Umana, che di Mr. Fantastic non vedevamo l’utilità) o degli X-Men (gli artigli alla Wolverine erano il sogno segreto di tutti i ragazzini). Persino chi voleva le cinture super-attrezzate di un Batman qualsiasi, che di superpoteri – al di là dei miliardi – non ne aveva, era parte di quella impossibile tendenza tipicamente fanciullesca al supereroismo in salsa fumettistica. Poi ovviamente si cresce, i sogni cambiano. Si realizza che diventare supereroi non è esattamente una strada praticabile perché non ci sono ragni radioattivi e in effetti la nostra vita non si svolge all’interno di un albo Marvel, o DC. O nemmeno in Dragon Ball se è per questo. Ma siamo così sicuri che i supereroi esistano solo sulla carta stampata? E soprattutto, siamo così sicuri che, come qualsiasi creazione della fantasia umana, non derivino un po’ dalla realtà? Perché andando a scartabellare nella storia del basket, in un’epoca che viene prima di Dragon Ball, prima di Iron Man, e Hulk e Spiderman e Batman, incontriamo una figura fantasmagorica che con i supereroi avrebbe molto a che spartire. Lo chiamavano “the Kangaroo Kid”, un nome che non stonerebbe del tutto su un giustiziere mascherato. Era snello e atletico, con la faccia del bravo ragazzo. Saltava, Kangaroo Kid, saltava davvero tanto. E dobbiamo sempre ricordare che, come ci informa Sheldon Cooper di the Big Bang Theory:«il volo di Supermen è una estensione della sua capacità di saltare in alto». Nel qual caso, Kangaroo Kid deve essere stato la più probabile fonte di ispirazione per il kryptoniano dal capello impomatato e l’occhiale improbabile che si faceva chiamare Clark Kent. Questo è il racconto delle sue gesta. Questa è la storia di Jim Pollard.
La città di Oakland, California, era profondamente diversa da come è ora, all’inizio dei Ruggenti anni Venti. In effetti all’epoca si trattava di una cittadina affacciata sulla San Francisco Bay e contraddistinta dalle tozze sagome dei capannoni industriali. Cantieri navali, catene di montaggio automobilistiche, industrie di siderurgia pesante, Oakland sembrava essere la capitale del fordismo duro e puro (anche se negli anni Venti il concetto di fordismo non esisteva ancora). Mancavano dal suo skyline i profili di molti dei suoi più iconici edifici, come l’Ordway Building, il Fox Theater, la modernissima Cathedral of Christ the Light e soprattutto la Oracle Arena – che qualcuno potrebbe conoscere come casa dei Golden State Warriors. Ma proprio con l’inizio degli anni Venti, Oakland era entrata in un momento di sfavillante boom economico. Si costruivano nuove fabbriche a un ritmo vertiginoso, e le fabbriche portavano lavoro, che portava gente, che costruiva nuove case, tutte in quello stile misto tra Art Nouveau e Art Déco tanto in voga ai tempi. Erano gli anni dell’esplosione del jazz, di George Gershwin e de Il grande Gatsby, divisi tra gli strascichi del dadaismo e i primi prodromi del surrealismo. L’ottimismo e il positivismo erano nell’aria in percentuali uguali a quelle dell’azoto. L’America e gli americani si sentivano imbattibili. Era il periodo in cui ruggivano i sogni.
Fu in questa città in vertiginosa ascesa, in questo tipo di società sfavillante e fiduciosa nel futuro che nacque, il 9 luglio 1922, James Clifford Pollard, per tutti Jim. Fin da piccolo fu fisicamente straripante, tanto da far capire che crescendo sarebbe diventato un vero gigante. Quel tipo di fisico che, insomma, si adattava bene al basket, un gioco per la gran parte ancora in fase embrionale d’evoluzione e del quale nessuno aveva ancora capito le potenzialità. A quattordici anni Jim Pollard era uno stampellone coi capelli a spazzola che entrava per la prima volta, zaino in spalla, nella Oakland Techincal High School, il posto dove il basket sarebbe entrato a far parte della sua vita in modo indissolubile. E anche il luogo dove sarebbe andato incontro a una certa predestinazione cromatica: perché i colori della Oakland Tech, e quindi delle maglie della squadra di basket, erano dei tutt’altro che casuali purple-and-gold. Ma non bisogna precorrere i tempi, era ancora il 1936, e Jim Pollard doveva imparare i fondamentali del Gioco, familiarizzare con la sensazione di avere una palla da basket tra le mani, imparare a trovare la confidenza con il cesto. Ragazzo intelligente com’era, si accorse ben presto che, al di là di saper tirare bene, sarebbe stato utile poter ridurre al minimo il margine d’errore quando si cercava di mettere la palla a canestro. “Da che mondo è mondo – dovette pensare – il modo più facile di fare entrare qualcosa in un cesto è infilarcelo dentro”. E così cominciò ad applicarsi per fare proprio quello: si allenò a saltare. A saltare sempre più in alto, sempre più forte, finché non si accorse che le sue mani tese arrivavano ormai ben al di sopra dell’anello. In quel modo diventava molto facile fare canestro. In breve Jim Pollard cominciò a schiacciare. Non era certo l’inventore di questo gesto atletico (negli stessi anni il centrone Bob Kurland stava cercando di sdoganarlo addirittura a livello olimpionico) ma di certo era uno dei pochi a praticarlo con regolarità. E non solo perché non tutti i giocatori dell’epoca avevano i mezzi atletici, quanto perché schiacciare era considerato dai difensori avversari una mancanza di rispetto che doveva essere punita, e chi lo faceva finiva spesso per subire falli gravi, conditi da più o meno seri infortuni. Satch Sanders – 13 onorati anni di carriera nei Celtics tra 1960 e 1973 – ricordava che se schiacciavi:
i difensori cercavano di metterti fuori gioco in modo che non potessi giocare. Era una regola non scritta.
Ma a Jim poco importava delle regole, scritte o non, e continuò ad allenarsi in quel fondamentale aspetto del gioco, affinando la sua tecnica tanto da riuscire infine a schiacciare staccando dai pressi della linea del tiro libero. Una follia bella e buona. Nel 1940, anno del suo diploma, Jim Pollard era probabilmente uno dei giocatori più atletici e ambiti dell’intera nazione, e tutto quello che doveva fare era scegliere il college al quale affidare il proprio futuro.
Ma facciamo un passo indietro per capire quale fosse lo stato del college basketball in quel periodo. La NCAA era nata nel 1939 e la prima squadra campione era stata la Oregon di coach Howard Hobson. A loro si era dovuta arrendere Ohio State, nonostante fosse guidata dal Most Outstanding Player di quell’anno, Jimmy Hull, autore, tra le altre cose, di 58 pts durante il torneo. Ma il fatto notevole di quelle Final Four era stata sicuramente l’assenza di una delle squadra più straordinarie del lustro precedente: Stanford. La squadra che aveva cambiato il modo di intendere il basket era infatti orfana della sua punta di diamante, Hank Luisetti, che aveva completato il suo percorso accademico ed era approdato in AAU nel 1938. Con lui se ne era andato anche lo storico coach John Bunn, che aveva lasciato il pino a Everett Dean, ex head coach di Indiana, chiamato a raccogliere una pesante eredità, soprattutto sul piano del gioco. Grazie a Luisetti infatti, Stanford aveva abituato i suoi tifosi a partite frizzanti e spettacolari, oltre che vincenti. Coach Dean seppe ben figurare fin dal suo primo anno, ammassando 16 vittorie a fronte di 9 sconfitte, e anche nel secondo, con un record di 14-9. Ma a Stanford mancava qualcosa. Serviva un altro Luisetti, serviva un altro leader. Fortuna che alla Oakland Tech c’era un ragazzo alto e affilato che giocava come un demonio.
Jim Pollard e Stanford University si incontrarono in quel 1940, e fu subito un matrimonio di successo. Pollard era uno straordinario all-around player, capace di gestire il pallone, segnare in prima persona, scaricare deliziosamente ai compagni e tirar giù carambole. Fu naturale per Dean affidargli le chiavi della squadra, e costruirgli la sua armata intorno.
In ogni singola partita Pollard era sempre più stupefacente e, approfittando del fatto che la regola del goaltending (altresì detta “interferenza a canestro”) non era ancora stata inventata, divenne anche uno shot blocker pazzesco. In parabola ascendente o discendente, sembrava non esserci tiro sul quale una sua mano non potesse arrivare per rispedirlo al mittente. Stanford risorse come un’Araba Fenice. Nel 1940/41 fu campione di Division con il record di 10-2. Ma fu l’anno successivo quello in cui, presa per mano da Pollard, raggiunse le vette più alte. Al torneo NCAA del 1942 infatti Stanford, che aveva un record di 25-4, eliminò Rice al primo turno per 53-47, nonostante una prestazione maiuscola di Chet Palmer, stella degli avversari. Al secondo turno simile sorte toccò anche a Colorado, battuta per 46-35. In quelle sole due partite Pollard aveva messo a segno 43 pts. Ma la sfortuna sembrò volersi accanire contro di lui, e così il giorno della finale Jim Pollard non era al Municipal Auditorium di Kansas City, Missouri insieme ai suoi compagni, ma steso in un letto a causa della febbre. Poteva essere il sinonimo di un disastro incombente per Stanford, ma coach Dean seppe motivare i suoi, spingerli al massimo risultato anche senza Pollard, anche per Pollard. Stanford batté Dartmouth per 53-38 ed entrò nei libri di storia.
Ma la Seconda Guerra Mondiale incombeva già con la sua lunga ombra sulla vita degli americani: l’attacco a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941 aveva posto fine al mito dell’invincibilità statunitense, e gli USA si stavano preparando alla sanguinosa riconquista, brano a brano, dei numerosi arcipelagi del Pacifico. Nessuna risorsa poteva rimanere a casa, la mobilitazione fu imponente e sconvolgente. Anche Jim Pollard venne arruolato, precisamente nella Guardia Costiera, dove servì per quattro anni, fino al 1946. Durante la sua esperienza militare Pollard ebbe comunque modo di continuare a giocare, per rimanere pronto al suo ritorno. Nel 1945/46 giocò con i San Diego Dons della lega amatoriale, la AAU, poi tornò a casa per unirsi gli Oakland Bittners l’anno successivo. In ognuna delle due stagioni arrivò ai playoffs della lega, divenendo All-American, costruendosi la reputazione di giocatore fenomenale, e continuando a schiacciare come se non ci fosse un domani.
Intanto nel 1946 il mondo del basket USA era cambiato. I Detroit Gems, dopo una deprimente stagione da 4-40 di record, erano stati sommersi dai debiti ed avevano dichiarato bancarotta. Il titolo sportivo era stato acquistato da due imprenditori originari del freddo Minnesota, Benjamin Berger e Morris Chalfen, che avevano deciso di prendere baracca e burattini e spostarsi a Minneapolis assumendo il nome di Lakers. Qui avevano cominciato a costruire una franchigia strepitosa, destinata a dominare i destini del basket statunitense per il lustro successivo. Erano alla ricerca di un qualcosa di più simile a un Santo Graal che a un giocatore: volevano un esterno capace di segnare e andare a rimbalzo, di gestire la palla e passarla ai compagni, di difendere su qualsiasi giocatore avversario. Volevano un all-around. Fortunatamente nel consiglio direttivo della franchigia c’era un certo Sid Hartman, personaggio dalla mente svelta e l’occhio lungo, capace di scandagliare con un più che discreto successo la AAU in cerca di talenti. Hartman sottopose alla dirigenza il nome di un venticinquenne Jim Pollard, e ricevette il via libera per procedere nella trattativa. Ci volle poco: un contratto da 10.000 $ (soldoni sonanti all’epoca) più un bonus di 3.000 $ alla firma, e Jim Pollard divenne un Laker.
A Minneapolis avevano appena trovato il loro oro californiano. Pollard era un giocatore di un atletismo mai visto, ed era solito far scatenare l’arena già durante il riscaldamento, deliziando il pubblico con le sue schiacciate irreali. Saltava così in alto che tifosi e compagni cominciarono a chiamarlo “the Kangaroo Kid”, e anche il coach di quei Lakers, John Kundla, ricordava lo spropositato atletismo di quel ragazzo tutto nervi:
Era veloce e sapeva saltare. Nella sua prima partita da professionista se ne venne fuori con un gomito sanguinante e io gli chiesi subito «Che è successo?» Mi disse che lo aveva battuto contro il tabellone. Cristo. Quand’ero al college io non riuscivo nemmeno a toccare la retina.
Ma erano soprattutto gli avversari a temerlo. Andrew Levane, detto “Fuzzy”, che giocava con i Rochester Royals all’epoca, ricordava:
Chi aveva mai sentito parlare di schiacciate ai nostri tempi? Lo seguivo in area, pensando stesse per sbagliare un layup e poi all’improvviso – BOOM! – la metteva dentro.
E anche un altro grandissimo di quegli anni, Ephraim “Red” Rocha, dei St. Louis Bombers era spaventato da Pollard:
Poteva farti sembrare un povero stupido. Per quello che mi riguarda, lui è stato il giocatore più completo, da un punto di vista puramente tecnico, che io abbia visto nel periodo in cui giocavo. Era veloce come una guardia. Alla fine delle partite, scaricavano palla a Pollard e lui palleggiava e nessuno riusciva a prenderlo. E a rimbalzo – poteva fare di tutto.
Con Pollard i Lakers avevano fatto un passo deciso verso il loro destino di dominatori. Ora mancava un ultimo affondo, l’ultimo innesto: serviva un centro. Fortunatamente i Chicago Gears decisero di fallire proprio in quel periodo, sparpagliando in giro tutti i loro assets. E tra questi un ragazzone enorme che rispondeva al nome di George Mikan. Con l’arrivo contemporaneo di Vern Mikkelsen quello che sarebbe diventato uno dei frontcourt più forti di sempre era ormai formato.
Ma come tutti gli inizi, anche quello del duo Mikan-Pollard fu un po’ stentato: entrambi troppo interessati a dimostrare di essere il gallo con la cresta più alta dentro al pollaio finirono per intralciarsi a vicenda. Mikan intasava le linee di penetrazione di Pollard, Pollard occupava lo spazio in post di Mikan, entrambi si prendevano un sacco di one-on-one inconcludenti. I Lakers, travagliati da questa faida interna, persero quattro delle loro prime cinque partite. Coach Kundla dette letteralmente fuori di matto e costrinse i due a mettersi a studiare, insieme a lui, un modo per convivere ed essere devastanti insieme. Il compromesso fu facile da raggiungere: limitare al massimo le situazioni di uno contro uno, lavorare insieme, giocare di squadra con dei pick n’ roll o dei give n’ go. I due erano giocatori troppo intelligenti per non capire quanto potevano vincere insieme. La pace fu sancita e controfirmata, i Lakers ingranarono le marce alte e la NBL divenne il loro parco giochi. Al primo titolo (1947) ne seguì un secondo in BAA (1948) e poi altri quattro in NBA. Pollard era devastante: martoriava i ferri o metteva a ferro e fuoco le aree avversarie. Mikan gli invidiava forse un po’ di atletismo, ma contemporaneamente lo ammirava. Lo lasciava senza parole la capacità di Pollard di saltare:
Mi ricordo una volta che intercettò un pallone a centrocampo. Arrivò dalle parti della linea del tiro libero, poi saltò e la mise da lì.
I Lakers divennero una macchina ben oliata destinata a una sola missione: la vittoria del titolo NBA. Anche se secondo i tifosi era sempre Mikan a fare la gran parte del lavoro (effettivamente le cifre che il centrone mise su erano impressionanti) il resto della squadra non se ne stava certo con le mani in mano, e Pollard era uno dei leader riconosciuti. E tutti lo sapevano: nel 1952, infatti, i tutti i giocatori che avevano giocato nella NBA fin dai suoi inizi votarono Jim Pollard come il più forte giocatore della sua epoca, prima anche del debordante Mikan.
Ma la sua leadership Jim la dimostrò appieno durante gara-5 delle Finals del 1953. I Lakers erano comodamente avanti per 3-1 sui New York Knicks e avevano il match-point. Pollard decise che avrebbe chiuso il discorso quella sera, e così fece. Segnò 17 pts, con un irreale 6/7 dal campo e 5/6 ai liberi, conditi da 9 rbd e 3 ass. Materiale da MVP delle Finals, se il premio fosse esistito all’epoca. Il dominio Lakers si estese per sette stagioni, durante le quali la squadra vinse sei titoli (mancando quello del 1951 a causa di un grave infortunio di Mikan). All’indomani del ritiro dal basket giocato di Mikan e Kundla (era il 1954), Pollard decise a sua volta di smettere, e nel 1955 lasciò i Lakers, mettendo di fatto fine alla dinastia che aveva dominato per prima la NBA. Alla data del suo ritiro aveva messo insieme qualcosa come 6.522 pts, con una media di 13.1 a partita. Un apporto che alcuni potrebbero persino considerare inferiore al suo talento. Ma bisogna ricordare che la mentalità del tempo era profondamente diversa rispetto a quella di adesso: per quanto lo stesso Mikan potesse essere osannato, per quanto Pollard potesse essere versatile, nessuno dei due pensò mai di essere un “uomo solo al comando”, la superstar solitaria di una squadra che non poteva vincere se non con lui. Lo spirito di gruppo fu il collante in grado di tenere uniti giocatori così straordinari e renderli parte di un collettivo assolutamente irrefrenabile, un collettivo che arrivava persino ad oscurare ogni minimo difetto dei giocatori che ne facevano parte. E di questo aspetto beneficiò anche Pollard, che aveva la brutta tendenza a tirare i remi in barca quando non fosse stato abbastanza “interessato” alla partita. Normalmente in grado di fare meraviglie sul parquet, tendeva a preoccupanti cali di tensione difensivi ed offensivi finché qualcosa (come ad esempio una telecamera) non avesse stuzzicato il suo interesse. Al giorno d’oggi diremmo (a torto) che non aveva killer instinct, o la “Mamba mentality“. Più propriamente, era un eclettico che rendeva al massimo quando la sua fantasia era completamente presa. Non a caso coltivò più di uno sport, e durante tutto il suo periodo in Minnesota giocò anche nella squadra di baseball amatoriale di Minneapolis, con buoni risultati: era un buon lanciatore e un battitore potente tanto che una volta colpì una palla che “non si fermò finché non raggiunse Chicago” (il che, per assurdo, è assolutamente vero, visto che la mandò a infilarsi nel vagone di un treno merci diretto nella Windy City che passava sui binari vicino al “diamante” di Minneapolis).
Dopo essersi ritirato da giocatore, Jim Pollard non rimase certo seduto a godersi la pensione: venne assunto come allenatore dalla La Salle University a Philadelphia, e la guidò per tre stagioni nella NCAA, assommando un record complessivo di 48-28. Nel 1960 fece ritorno in Minnesota, succedendo a un esonerato John Castellani sul pino di quelli che erano stati i sui Lakers (era il secondo giocatore della dinastia, dopo Mikan, a prendere il ruolo di allenatore). Non fu una stagione particolarmente felice, tra la squadra che, nonostante un fantastico Elgin Baylor, arrancò per raggiungere un povero 25-50, e un disastro aereo sfiorato in gennaio durante un volo per St. Louis. Alla fine il proprietario Bob Short decise di spostare la squadra sulla West Coast, a Los Angeles. La storia dei Minneapolis Lakers era finita, e Pollard ne era stato l’ultimo coach. La sua carriera sui pini NBA continuò con due anni ai Chicago Packers, prima del passaggio nella ABA, dove allenò i Minnesota Muskies, tra 1967 e 1968, per poi seguire la squadra nel trasferimento che la portò a Miami, con il nome di Floridians. Dopo aver lasciato la panchina nel 1969, si assise per due stagioni su quella di Florida Atlantic University, a Fort Lauderdale, prima di ritirarsi definitivamente dal mondo della palla a spicchi.
Se ne andò a Stockton, California, una cittadina non lontana da Sacramento, a vivere la sua meritatissima pensione con la moglie Arilee e i tre figli Jack, Jeff e Jeanne. Fu qui che, nel 1978 lo raggiunse la notizia di essere stato eletto a far parte della Hall of Fame, riconoscimento doveroso per un uomo dalla carriera straordinaria come lui. E fu ancora a Stockton che alla fine, il 22 gennaio del 1993, il Kangaroo Kid se ne andò.
Dopotutto il mantello di supereroe sarebbe stato l’indumento giusto per le larghe spalle di Jim Pollard, l’uomo in grado di schiacciare dalla linea del tiro libero, il Kangaroo Kid. E vederlo librarsi in aria nella sua maglia oro-viola numero 17 senza sapere se fosse un uomo o un canguro, deve essere stato un po’ come avvistare un puntino lontano nel cielo e chiedersi “È un uccello? È un aereo? No, è Superman”. E tanto quanto “da grandi poteri derivano grandi responsabilità”, come disse un certo zio Ben a un certo Peter Parker, da grandi vittorie deriva la gloria, il mito, la leggenda. Per cui se potessi tornare a quando ero bambino, e volevo avere i superpoteri ed essere un supereroe, la mia scelta sarebbe, senza dubbio, Kangaroo Kid.
E la vostra?