Cosa può indurre una franchigia NBA a offrire a un giocatore un contratto stratosferico?
Forse, il rango di superstar: talento sconfinato, innate doti di leader, capacità di trasformare una squadra da normale a contender, la dimensione mediatica, lo status di icona del basket. In realtà, non sempre sono necessarie tutte queste cose per strappare un contratto da capogiro. Almeno dopo quanto successo agli inizi di luglio 2016 a Memphis: Mike Conley ha firmato con i Grizzlies, l’unica squadra in cui abbia mai militato, un accordo quinquennale record di 153 milioni di dollari, che lo rende attualmente il secondo giocatore più pagato nella lega, alle spalle di LeBron James. Prima di lui, solo Michael Jordan e Kobe Bryant erano arrivati a firmare accordi per oltre 30 milioni a stagione. Ecco: due leggende del gioco, gente che è arrivata a plasmare modelli sociali e stili di vita. Perché allora Mike Conley, un ottimo play di 29 anni ma non certo noto al grande pubblico, ha ottenuto un contratto degno delle maggiori star NBA? Le ragioni ci sono, e sono molte.
Quando la point guard dei Grizzlies ha scarabocchiato il suo autografo in fondo ai fogli che il gm Chris Wallace gli ha posto davanti, con quell’atto ha sancito che l’affidabilità, l’umiltà, la correttezza, il lavoro duro, la lealtà alla propria squadra e alla città, possono essere riconosciuti come elementi fondamentali nel profilo di un atleta professionista, meritevoli di essere ricompensati con un’offerta strepitosa. Sia chiaro: non si sta togliendo nulla ai LeBron, ai Durant, ai Wade, superstar globali che sono riuscite a essere modelli positivi di successo e stile, ma un normalissimo Mike Conley trattato come loro, se non meglio, ha fatto un po’ pensare. Una certezza di fondo, però, esiste: dal punto di vista di ciò che dimostra in campo, di quel che è stata la sua carriera e dell’importanza del suo ruolo in squadra, lui quei soldi li vale tutti. Per troppo tempo, infatti, Conley è stato uno dei giocatori più sottovalutati della NBA.
Mike Conley – al secolo Michael Alex Conley Jr., dove il “Jr.” serve a distinguerlo dal “Sr.” che fu medaglia d’oro nel salto triplo ai giochi di Barcellona 1992 – è stato sempre un esempio di rendimento regolare e di costante crescita, dalla tenera età fino a oggi. Senza sbandamenti, senza uscite di testa: un giocatore modello. Forte di una salda fede religiosa, non ha mai perso la fiducia in se stesso, arrivando a ottenere traguardi importanti, lui che – questo sì – a livello di talento puro e di valore assoluto non può essere accostato ai più forti giocatori NBA. Il suo percorso, rallentato solo da qualche infortunio, ha attraversato tappe decisive ed è stato sempre nel segno della concretezza, mantenendo un basso profilo e senza mai atteggiarsi a star.
Conley è nato l’11 ottobre 1987 a Fayetteville in Arkansas ed è cresciuto a Indianapolis, dove ha frequentato la Lawrence North High School. In Indiana, come si dice, il basket è una religione e i campionati liceali attirano un’elevata attenzione. Mike si afferma presto tra i migliori e trascina a suon di punti e soprattutto assist (sono 123 nel quarto anno) la sua scuola a tre titoli statali, con un totale di 103 vittorie e appena 7 sconfitte. A giocare pick and roll con lui, condividendone le fortune dei Wildcats, c’è uno statuario centro vecchia maniera: si chiama Greg Oden e viene nominato Mr. Basketball dell’Indiana, con Conley secondo.
Nel 2006, per i neodiplomati Conley e Oden, è tempo di scegliere il college: entrambi vanno a Ohio State da coach Thad Matta, a Columbus, che non è poi così distante da casa. Con loro c’è pure Daequan Cook, che oggi si è perso in squadre europee di seconda fascia dopo alcune esperienze NBA. Dura solo un anno la loro permanenza al college, in cui arrivano alla finalissima del torneo NCAA persa con Florida. In quella March Madness si ricorda una grande prestazione di Mike nel secondo turno con Xavier, vinta grazie ai suoi 11 punti (su 21 complessivi) nell’overtime, con Oden fuori per falli.
E si giunge al draft NBA, altro momento chiave per Conley. Non è un draft ricchissimo, a dire il vero. La prima scelta è dei Portland Trail Blazers e sarà uno tra Greg Oden e Kevin Durant. Il destino spinge i Blazers verso il centro di Ohio State, con i Seattle Sonics che “ripiegano” su Durant. Giudicare un draft con il senno di poi è l’esercizio mentale più inutile, e forse ingiusto, che si possa fare: ma quella sliding door del 2007 qualche notte insonne l’ha fatta passare. Oden, abbattuto da una serie impressionante di infortuni, è fuori dal basket nonostante oggi abbia solo 28 anni, Durant è una delle stelle del decennio. La terza scelta, di Atlanta, è Al Horford. Alla quarta David Stern chiama sul palco Mike Conley, che indossa il cappellino dei Memphis Grizzlies. C’è posto pure per Daequan Cook con Philadelphia, alla 21.
I Grizzlies sono una squadra in ricostruzione, reduci da un 22-60 che avrebbero ripetuto qualche mese più tardi. Finita la discreta epoca di Jerry West general manager con i coach Hubie Brown e Mike Fratello (tre apparizioni ai playoff ma senza aver mai vinto una gara di post season), dopo il breve interregno di Tony Barone arrivano Mark Iavaroni (ex assistente ai Suns) in panchina e Chris Wallace (ex Celtics) alla scrivania. Nella stagione da rookie, Conley registra una buona media di 9,4 punti e 4,2 assist in 26 minuti di utilizzo, partendo alle spalle di Kyle Lowry e Damon Stoudamire.
Mike Conley ha raccontato a The Players’ Tribune un episodio tra lui e Stoudamire, avvenuto alla vigilia del suo primo training camp. Un informale uno-contro-uno in cui il veterano non la fa mai vedere al diciannovenne Conley, dominato in lungo e in largo. Un battesimo durissimo, da cui apprende una lezione a dir poco fondamentale: in NBA niente è regalato, devi lottare per conquistarti ogni metro di campo, ogni secondo di gioco, sopportare bump-and-bruises, colpi e lividi, anzi andarli pure a cercare. Quella volta nasce una buona amicizia: Stoudamire prende Conley sotto la sua ala protettiva, non mancando tuttavia di rimproverarlo se non lo vede ben disposto ad accettare il gioco duro. Una lezione che Mike avrebbe imparato molto bene, in particolare durante i playoff del 2015.
Nel 2007-08, dei playoff a Memphis non si sente neppure l’odore. A febbraio Pau Gasol se ne va a fare le fortune dei Lakers, in cambio di elementi di secondo piano ma anche dei diritti sul fratellino Marc in arrivo dalla Spagna. Per i Grizzlies seguiranno altre due stagioni in negativo per la squadra, ma molto buone per Conley. Nella 2008-09, chiusa con 24-58, due episodi ne favoriscono la carriera: l’avvicendamento di Iavaroni con Lionel Hollins, che porta maggior organizzazione difensiva, e soprattutto le partenze di Stoudamire e Lowry, che liberano lo spot di point guard titolare. Mike chiude l’anno con 10,8 punti e 4,3 assist in 30,6 minuti, cifre destinate a salire nelle due annate successive, in cui è ormai titolare indiscusso. Nella 2009-10 Memphis è ancora fuori, ma le vittorie salgono a 40 e inizia a formarsi il nucleo base della crescita successiva: Mike Conley, Zach Randolph, Marc Gasol e, da quell’estate, Tony Allen, arrivato da Boston. Con The Core 4, dalle parti di Downtown Memphis è tempo di grit-and-grind.
Mentre quasi tutta la NBA vira verso l’attuale paradigma dominante, cioè il gioco a ritmi alti con ricorso intensivo al tiro da tre, sublimato dai Golden State Warriors dopo gli entusiasmanti tentativi di Mike D’Antoni a Phoenix, i Grizzlies per restare competitivi proseguono imperterriti nella loro ricerca del post basso e nell’intensità difensiva, sacrificando la spettacolarità in nome dell’efficacia, non disdegnando di ficcare qua e là qualche bad boy di pistoniana memoria, puntando tutto su grinta, determinazione, fisicità e lavoro duro e rispecchiando lo spirito della povera e difficile Memphis. Randolph e Gasol diventano una delle più affiatate coppie di lunghi della Lega, Allen è il collante difensivo e partita dopo partita, silenzioso come sempre, Mike Conley assurge a leader della squadra, metronomo del gioco, garantendo visione di gioco, difesa e parecchi punti. Lo fa modo suo, parlando l’unico linguaggio che conosce, quello del lavoro duro e della solidità, incrementando le proprie cifre personali nelle gare di playoff, aspetto che la dice lunga sul livello di competitività di un giocatore. E così, nella primavera del 2011, i Grizzlies tornano ai playoff e arriva subito il colpo grosso: qualificati con l’ottavo piazzamento, eliminano 4-2 i San Antonio Spurs che avevano il miglior record, per poi far sudare gli Oklahoma City Thunder, che la spuntano 4-3, in semifinale di conference.
Per Memphis è l’inizio di una striscia di apparizioni in post season tuttora aperta. Nel 2012, anno del lockout, esce al primo turno 4-3 con i Clippers, mentre nel 2013 i Grizzlies si vendicano sui losangelini e sui Thunder, prima di arrendersi ai San Antonio (secco 4-0, ma con due gare perse all’overtime). Conley è inserito nel secondo quintetto difensivo della NBA. Nel 2014, alla prima stagione con coach Dave Joerger, di nuovo un’uscita al primo turno con Oklahoma City per 4-3. E si arriva così alle ultime due stagioni, in cui Conley, e non solo lui, ha dovuto fare i conti con un difficile avversario in più: gli infortuni.
Ricordate la lezione di Stoudamire, quella dei bump-and-bruises? In gara 3 del primo turno dei playoff 2015, vinto 4-1 con i Blazers, Conley si procura una frattura all’orbitale che lo costringe all’intervento chirurgico e a restare fuori fino a gara 2 di semifinale di conference contro i futuri campioni Golden State Warriors. Qui rientra indossando una maschera protettiva, ma un contatto con Draymond Green gli fa saltare i punti di sutura. Conley riesce a tornare in campo e a concludere con 22 punti, trascinando Memphis a un inatteso successo esterno alla Oracle Arena 90-97. Gli Warriors vinceranno poi la serie 4-2. Nell’ultima stagione Conley conduce ancora i Grizzlies ai playoff per il sesto anno consecutivo, ma lui non li giocherà per un infortunio al piede. Anche Gasol resta fuori e Memphis si avvia a un inevitabile 0-4, di nuovo con San Antonio, ultimo atto di un coach Joerger che a fine partita non trattiene le lacrime, dopo aver visto la squadra che, seppur decimata, aveva dato tutto sul campo contro una corazzata come gli Spurs, in pieno spirito grit-and-grind.
In estate Mike Conley è ricercato da squadre che vedono in Conley l’uomo ideale per far girare al meglio i loro meccanismi. Ma l’antidivo di Indianapolis sceglie di restare a Memphis, dove per convincerlo girano e diffondo persino un video con Justin Timberlake (socio dei Grizzlies) e con tutti i suoi compagni. Certo, è da ingenui non pensare che la mega offerta di 153 milioni di dollari in 5 anni non abbia avuto un’influenza decisiva nella scelta, così come senza il nuovo contratto televisivo da 2 miliardi dell’intera NBA e l’aumento del salary cap a 94 milioni, una franchigia di mercato minore come Memphis mai avrebbe potuto alzare lo sforzo a certe cifre. Ma uno dei primi commenti rilasciati da uno spaesato Conley dopo la firma (“non so cosa farò con questi soldi, forse comprerò una nuova auto per mia moglie…”) ha tolto di nuovo ogni dubbio sul carattere di questo giocatore, che ha evitato ogni festeggiamento in un periodo in cui Memphis è finita sulle cronache per i disordini che vedevano coinvolti cittadini e polizia. Sposato con Mary Peluso, una ragazza conosciuta all’università, e padre del neonato Myles Alex, Mike è una persona sensibile alle ingiustizie sociali e vuole essere di aiuto e di ispirazione per la comunità locale, invocando lo stop alla violenza sia contro gli agenti sia contro persone innocenti. La sua correttezza gli è valsa inoltre per due volte lo Sportmanship Award della NBA, nel 2014 e nel 2016.
Non è mai stato votato né convocato all’All-Star Game: forse non è un posto per lui, anti-star per eccellenza. Mike Conley è concreto, gioca per il risultato, non per lo spettacolo. La sua leadership è fatta di buon esempio, dedizione totale alla squadra, mani sicure in cui affidare la palla e mandarla pure nel canestro con una certa continuità (ha un career high di 36 punti, nel dicembre 2015 contro i Sixers in una vittoria 120-115 all’overtime), grazie anche al suo buon tiro da tre. Il mancino numero 11 dei Grizzlies non avrà quell’esplosività in grado di spaccare le difese da solo, forse non si troverebbe bene in una squadra che gioca troppo di corsa.
Il suo talento non sarà purissimo, ma Mike Conley è lì da dieci anni e sarà il leader di Memphis probabilmente fino a fine carriera. Perché senza la squadra, che lui sa mettere in ritmo e trascinare unita, non sarebbe nulla e Memphis non sarebbe nulla senza di lui. Quando lo si vedrà ancora portare all’occhio pollice e indici uniti, nel suo gesto di celebrazione dopo un canestro, risuoneranno le sue parole:
Memphis è città di basket, ma spesso non è considerata. Noi respingiamo le critiche e pensiamo solo a giocare. A Memphis si gioca a basket. Ora sento che ogni cosa successa durante la mia carriera mi ha condotto fino a questo punto. Ma è solo l’inizio, è tempo di lavorare.
E Mike Conley ha 153 milioni di motivi per continuare a farlo al meglio delle sue possibilità.
Scritto da Francesco Mecucci