Qualcuno si ricorda l’aurea mediocritas? No, non siamo all’interrogazione di latino della quarta liceo (per fortuna), ma quanto scritto dal poeta latino Orazio nell’Ode “A Licinio” ci serve come premessa. Perché se adesso parlare di mediocrità equivale a parlare di un qualcosa di negativo, nella Roma di Augusto l’aurea mediocritas, la capacità di tenersi sempre lontano dagli estremi e di rimanere nel mezzo per trovare l’ottimale, era considerato un pregio. In un mondo come quello NBA dove nel bene o nel male tutto è portato all’eccesso, non è affatto facile trovarsi in una zona grigia, specie se tutte le notti devi scendere sul parquet e lottare su ogni pallone. Eppure sembra che esista chi sia riuscito a trovare quella condizione sia all’esterno, ma soprattutto all’interno del campo.
Di tutti i giocatori che potete trovare nella NBA, l’attuale ala grande degli Atlanta Hawks Paul Millsap, “The Quiet Man”, è davvero la perfetta incarnazione dei valori appena descritti. Il suo gioco, fatto di pochi acuti ma di una costante applicazione in entrambe le metà campo, è la sintesi del basket essenziale ma ottimale, la perfetta trasposizione della filosofia oraziana applicata alla pallacanestro sia dentro che fuori dal campo. Sì, perché è molto difficile non farsi travolgere dalla fama che dà la NBA se, come per Paul, la tua vita non è stata semplice.
Sono stato costretto a giocare a basket… anche se alla fine è venuto fuori che era la scelta migliore per me.
Ultimo di quattro figli, Paul da bambino è un grande appassionato di football, ma si trova costretto a farsi andare bene il basket quando sua madre decide di trasferirsi per lavoro a in un piccolo paese nel nord della Lousiana, Downsville, perché i pochi campi che ci sono hanno dei canestri. Bettye Millsap supplica suo fratello maggiore DeAngelo Simmons di insegnare ai suoi figli il gioco, in modo che questo garantisca loro una strada verso quel successo che lei, con pochi soldi, non poteva garantirgli. Per il giovane Paul il passaggio dal football al basket è complicato, e i suoi fratelli non perdono l’occasione per umiliarlo in delle partitelle. Il più giovane dei Millsap non si perde però d’animo, e grazie all’aiuto dello zio DeAngelo e all’aiuto indiretto di Michael Jordan, di cui studia e imita i movimenti, Paul impara ben presto a farsi valere sul campo da basket, specialmente nella metà campo difensiva.
Dovevo dimostrare loro che potevo giocare a basket.
Quando Paul si presenta alla Grambling High School, tuttavia, il suo livello è ancora notevolmente inferiore paragonato a quello dei suoi compagni di squadra, tanto che il coach Michael Lyons lo ricorda come “un foglio bianco”. Il suo primo anno di high school è da dimenticare, in una squadra che conta già numerosi talenti, fra cui Antonio Hudson e John Millsap (fratello maggiore di Paul), il ragazzo non trova posto. Come sempre però, non si dà per vinto, e nella sua stagione da sophomore arriva ad ottenere delle buone statistiche (12.9 ppg), che arriva addirittura a raddoppiare alla fine della sua stagione da junior (26.4 ppg). Nonostante sia la produttività offensiva quella a saltare subito all’occhio, il piatto forte di casa Millsap sono i rimbalzi, che aumentano di partita in partita. Ogni qualvolta coach Lyons si gira per chiedere agli addetti alle statistiche quanti rimbalzi ha preso Paul, quelli rispondono che dovrebbero passare la notte in bianco per controllare.
Alla fine dell’High School Millsap rifiuta le avances di Oklahoma e di Louisiana State e accetta la borsa di studio della Louisiana Tech University, università meno prestigiosa, ma che pure se ne intende di power-forward, avendo prodotto il secondo miglior marcatore di tutti i tempi, “The Mailman” Karl Malone. In poco tempo, Paul diventa il suo erede spirituale, conquistandosi il soprannome quasi omonimo di “The Paper Boy”, il ragazzo che consegna i giornali.
Nei suoi 3 anni ai Bulldogs, Paul riesce nell’impresa unica di vincere per ben tre volte consecutive il premio di miglior rimbalzista della NCAA, e proprio durante la cerimonia per ritirare il premio, il coach dei Louisiana Bulldogs Keith Richard (ricordatevi che il chitarrista degli Stones ha la “s” finale) gli tributerà una particolare standing-ovation, la prima per il titolo di rimbalzista, la seconda per un titolo un po’ particolare.
Paul, I want you to give them a standing ovation for missing all them damn shot.
Malgrado i numerosi premi individuali e in parte a causa della poca nomea dei Bulldogs, al Draft del 2006 finisce per essere scelto solo al secondo giro, più precisamente con la 47esima, dagli Utah Jazz. I Jazz del 2006 sono una squadra che ha appena attraversato una ricostruzione, e dove Paul trova spazio come riserva di Carlos Boozer. Grazie ad un’incredibile stagione di Deron Williams (terzo nella classifica degli assistman dietro ai soli Nash e Chris Paul) e ad un’ottima annata da Rookie per Millsap, i Jazz riescono a raggiungere le finali di Conference, perse poi per mano degli Spurs.
La stagione di Paul è senza dubbio una delle migliori fra i Rookies, e sebbene chiuda l’anno con 7 ppg, 5 rpg, una palla rubata di media e ben 6 doppie doppie, non vincerà il premio di Rookie dell’anno che andrà invece a “The Natural” Brandon Roy. Il suo duro lavoro verrà però riconosciuto dalla franchigia dello stato dei mormoni, in particolare da leggendario coach dei Jazz Jerry Sloan, che spenderà per lui delle ottime parole.
Per andare a rimbalzo serve lavorare con la testa. Lui [Paul] lo fa sembrare semplice, ma non lo è. E’ un ragazzo sveglio che impara in fretta, e soprattutto che lavora duramente sia in campo che fuori.
Nei successivi tre anni Millsap consolida il suo ruolo nella squadra, e a seguito della decisione di Boozer di andare ai Chicago Bulls nell’estate del 2010, diventa titolare a Utah. Il peso delle responsabilità sembra non preoccupare il numero 24 dei Jazz, che inizia la stagione 2010-2011 con numeri impressionanti, facendo registrare 8.5 rimbalzi e 18 punti di media a partita nelle prime 30 gare. Il 9 novembre del 2010 (in una data che per gli USA diventerà storica 6 anni dopo), contro i neonati Miami Heat dei Big Three, Paul mette a referto il suo career high 46 punti, giocando una prestazione maiuscola. Contro uno scatenato Wade (39 punti) e dei modesti James e Bosh (rispettivamente 20 e 17), l’ala grande di Downsville mette a referto 11 punti (tra cui 3 triple) negli ultimi 28 secondi e trascina la sua squadra all’overtime (che verrà vinto dai Jazz) con un tap-in vincente. Nonostante i suoi buoni risultati, Utah non riuscirà comunque a qualificarsi per i Playoff. Solo l’anno successivo, dopo una buona regular season da 36 vittorie e 30 sconfitte, i Jazz approderanno alla post-season, pur perdendo 4-0 ancora contro i San Antonio Spurs, in una serie senza storia.
Il 10 luglio del 2013 Millsap, dopo sette anni passati ai Jazz, decide di accettare un contratto biennale di Atlanta. Agli Hawks ritrova l’ex guardia tiratrice dei Jazz Kyle Korver, stringe un ottimo legame con il centro atipico Al Horford, con cui forma una valida coppia di lunghi capace di dividersi efficacemente i compiti in attacco e in difesa e trova nel basket predicato da Mike Budenholzer il modo di esprimere al meglio le sue capacità. In una squadra dove tutti giocatori sono specializzati in un determinato compito e senza una superstar che necessiti di attenzioni privilegiate da parte dell’allenatore, il gioco degli Hawks spicca il volo e Millsap, a seguito degli ottimi risultati, ottiene la convocazione all’All Star Game (seppur come riserva). Pur con una prematura eliminazione dai Playoff (in gara 7 contro Indiana), gli Hakws arrivano al 2015 come una delle superpotenze dell’Est, e dopo una stagione regolare da 60 vittorie (record di franchigia), si spingono fino alle finali di Conference, dove si imbattono nei Cleveland Cavaliers di LeBron James. Budenholzer consegna le chiavi dell’attacco della squadra a Jeff Teague e affida la marcatura del Prescelto proprio al suo numero 4, ma alla fine sarà Cleveland a vincere la serie in quattro, risultato che si ripeterà pure l’anno successivo in semifinale di Conference.
All Star negli ultimi tre anni, fra i lunghi in attività secondo solo a DeMarcus Cousins per numero di palle rubate e colonna portante dei Falchi di Atlanta (primo della squadra in Real Plus-Minus, PER e True Shooting Percentage), sebbene non sia il leader emotivo della squadra (citofonare Dwight Howard) Paul Millsap è senza dubbio uno dei giocatori di cui Budenholzer e gli Hawks hanno bisogno per vincere. Un giocatore che non fa mai parlare di sé, che raramente ti rende partecipe delle sue emozioni, perché per lui il gioco è semplicemente un lavoro. E lì, con la sua aurea mediocritas, Paul continua a stupirci ogni giorno, ricordandoci di quanto a volte non eccellere basti per essere i migliori.
Pier Francesco Zanata