– Buongiorno, avete Rivista NBA?
Sguardo smarrito dell’edicolante, ti squadra perplesso dall’alto in basso.
– N-B-A, il basket americano, – scandisci.
– Mmm, no. Mi dispiace.
– La ringrazio, arrivederci.
Quando a undici anni sei in vacanza con i tuoi genitori in mezzo ai monti del Trentino, la NBA è come Itaca per Ulisse. Con la differenza che non hai Circe. Altra edicola.
– Buongiorno, scusi, cercavo Rivista NBA. Ce l’avete? – il tono mescola supplica e speranza. Questo tizio pare un po’ più sveglio. Va a colpo sicuro. Tra un giornale sul tennis e un’enigmatica pubblicazione sui tarocchi. Ci siamo. Sposta Superbasket e…
– L’ho finito, mi dispiace.
Sei a tanto così e il sogno sfuma. Ecco come dev’essersi sentito Allen Iverson nel 2001. C’è l’ultima edicola del paese. In realtà è più un bar con zona giornali. Che fai, non provi?
– Salve, per caso avete Rivista NBA? – Il tono è rassegnato. Come se avessi appena sprecato un vantaggio di 3-1 nelle Finals.
– Certo, è lì. Sullo scaffale dietro di te.
Quello che ti sudi duramente, vale sempre di più.
Quando hai sei, dieci, dodici anni – o anche qualcuno in più – lo sport è la fonte primaria dei tuoi idoli. Arriveranno più tardi gli idoli della musica, del cinema, della letteratura, della vita sociale. Idoli. Non c’è altra parola, a quell’età. Sono come statue inamovibili nella tua immaginazione. Eroi perfetti, senza macchia e senza paura. Se nasci in Italia, probabilmente saranno idoli calcistici. Le loro imprese hanno una carica di significato che va ben oltre il gesto tecnico.
Quel gol di Alessandro Del Piero, in semifinale con la Germania. Lui è ancora sulla trequarti, nemmeno inquadrato, ma tu sai già che segnerà. Il gol arriverà fra tre secondi, il tempo però si espande. Sono passati due minuti – di tempo reale – dal pallone telecomandato da Fabio Grosso, eppure l’hai già dimenticato. Passano ore intere nelle tue vene prima che Alberto Gilardino gli faccia quell’assist. Pinturicchio dipinge parabola più bella della tua vita. La liberazione definitiva. Berlino. Capisci che lì, a Dortmund si sta facendo la storia. Una storia molto più assoluta delle beghe umane di Waterloo, di Solferino o del Piave che mormorava.
Quando hai sei, dieci, dodici anni, gli idoli sono i buoni. Sono quelli sulla copertina. Sono i migliori. I paladini del tuo immaginario hanno nomi epici. Nessuno si chiama Mario Rossi. E se anche fosse, il significato delle sue imprese cambierebbe pure il suo nome. Lo sentiresti con un suono diverso. Gli eroi hanno nomi come Michael Schumacher. È quello che salta sul podio con il pugno alzato, di sottofondo c’è la voce di Ivan Capelli. Si chiamano Marco Pantani. Che ha pure il soprannome più figo della storia. “Il Pirata” è quello che al momento giusto, dopo quella curva, si alza sui pedali. Guarda indietro, alza le braccia. Champagne. Una volta ogni quattro anni, gli idoli sono anche su una pista rossa. L’atleta perfetto delle Olimpiadi è il centometrista. E l’Olimpiade perfetta è quella di Atene. Sillogismo socratico: il vincitore dei 100 metri ad Atene è l’atleta perfetto. Il campione uscente Maurice Greene mangia la polvere. L’oro è di Justin Gatlin. Poi c’è quello del poster nella pagina di mezzo di Rivista NBA. C’è Kobe Bryant. Nella tua testa non è ancora quel Mamba camaleontico che oggi conosci. Il Bryant idolo è quello con l’otto sulla schiena, che entra in area con la moto e si appende al ferro con la classe di Chopin.
Pensa per un momento a tutti gli abitanti del mondo. “Gatlin”, “Pantani” sono nomi eroici, ma ristretti a una cerchia di appassionati. Alla fine anche “Bryant” e “Schumacher” dicono molto a molti, ma nulla a tanti altri. Zoom su Charlotte, North Carolina, USA. Lì c’è l’idolo per eccellenza. Il simbolo. Il marchio. Non ci sono altri nomi che abbiano una potenza e una trasversalità come la sua. Dici “Michael Jordan” e si apre un universo. Per i più materialisti sono scarpe. Per gli amanti del gioco è The Goat. Per quelli che «Sei alto, giochi a basket?» è il nome dell’unico cestista che conoscono. È il rappresentante unico di uno sport. Una sineddoche vivente, la parte per il tutto. Più idolo di così, non si può.
Poi cresci.
Non hai più sei, dieci, dodici anni.
Ti accorgi che l’eroe senza macchia e senza paura non esiste. I nuovi idoli che nel frattempo impari ad amare sono tormentati, hanno lati oscuri, le loro vite scorrono incerte. Kurt Cobain, Giacomo Leopardi, Robin Williams. Allora inizi a vedere sotto un’altra luce anche i tuoi idoli sportivi. Si scoprono cose che non vorresti sapere. Esce fuori che Justin Gatlin è dopato. Lo squalificano. Ti rimane il dubbio. L’Olimpiade di Atene l’ha vinta lui o un farmacista corrotto? Marco Pantani muore tragicamente. Te lo dipingono come un maledetto. Inizi a ricordarti che i pirati non assomigliavano tanto Johnny Depp, quanto più al Long John Silver di Stevenson. Michael Schumacher è il simbolo della Ferrari, il cavaliere che doma il cavallino rampante di Modena e lo porta al traguardo, davanti a quel finlandese che tanto ti ha fatto penare. La massima competizione della tecnica, dominata per anni dalle Rosse emiliane. Schumi era diventato il paladino dell’italianità. Eri orgoglioso. Ma ti accorgi che Schumacher in tedesco assomiglia molto a calzolaio. Ti accorgi che dopo tutti quegli anni a Maranello, non ha ancora imparato a mettere in fila due parole di senso compiuto in italiano. Ti accorgi che è solo un crucco. Alla fine è solo un crucco maledettamente bravo a fare il suo mestiere. Su Kobe Bryant escono storie torbide. Una ragazza forse vuole guadagnarsi la pensione. Ma pensi anche che Kobe è giovane, magari si è montato la testa. È finito in una magagna più grossa di lui. Ma ci si è infilato lui. Magari è solo paraculato dalla sua celebrità. In più, porta il nome di una bistecca giapponese. Detto così non suona molto poetico.
Poi cade anche Michael Jordan. Tutte le maledette volte che provi a intavolare un discorso sul basket con dei profani, puntualmente, esce il suo nome. Ma tu volevi parlare dei no-look di Jason Williams. Volevi parlare del gioco in post di Marc Gasol. Volevi parlare dell’hype per Joel Embiid. No, MJ oscura tutto. Fagocita il basket. Scopri storie poco simpatiche. Capisci che, se fosse un generale alla guida di un esercito, non gli basterebbe conquistare la tua città: la raderebbe al suolo dissotterrando le bare degli antenati. Non gli basta vincerti, ti vuole umiliare. Tutto è una sfida. Non c’è pace per chi era di fronte a lui o al suo fianco. Inizi ad apprezzare Scottie Pippen, che consideravi solo l’eterno secondo. Si è fatto il mazzo per quei Bulls mentre lui andava a giocare a golf, a recitare con Bugs Bunny, a cazzeggiare con le mazze da baseball. Poi lui torna e i riflettori sono tutti sul #23. Leggi interviste, retroscena, i racconti di chi c’era. Te lo immagini un po’ come un grandissimo stronzo. Un enorme stronzo. Inizi a odiarlo. Lui non è il basket, ma per gli altri esiste solo lui. Il basket è il fruscio della retina sul pallone. Il basket è il cigolio di venti scarpe sul linoleum di una palestra vuota il mercoledì sera. Il basket è anche la vibrazione straniante di ferro-contro-mattone. Il basket non è Michael Jordan. Il rappresentante del sogno ti ha rubato la passione. Come se un venditore di pentole ti rubasse fuoco e fornelli.
No.
Non può essere così.
Qualcosa forse non ti torna.
Inizi a cercare cos’è che ti ha spinto a odiarlo. Individui la delusione. Come per Pantani, Kobe, Schumi, hai scoperto che anche lui è un uomo. Pensi a cos’è che ti fa salire la rabbia. Si accendono immagini. Tua cugina più piccola con lo snapback dei Knicks che balla Rovazzi. La profe di ginnastica che ti chiama “Jordan” perché sei l’unico della classe che vuole giocare a pallacanestro. L’unico film che passano ogni anno è Space Jam. E Glory Road? Coach Carter? He got game?
Ma tutto questo non c’entra nulla con Michael Jordan. Tutto questo è solo confusione mediatica e comunicativa. Tu Michael Jordan nemmeno lo conosci. Non ti ha bottato la Vespa mentre parcheggiava. Perché dovresti odiarlo? Però non è solo questo. Te lo hanno dipinto come un vincente, ma Bill Russell ha vinto molto di più. Te lo hanno dipinto come un leader, ma quanto merito bisogna attribuire a Coach Zen? Te lo hanno dipinto come un super-uomo. Ma alla fine è uno che si guadagna da vivere in pantaloncini su un parquet, mica salva famiglie da case in fiamme.
Si chiama invidia. Si chiama “lui-ha-successo-io-voglio-successo-ma-non-sarò-mai-come-lui”. Quindi cerchi i lati negativi. Vorresti che fosse un figlio di puttana, per sentirti migliore di lui. Magari lo è, ma non lo saprai mai. Non sta a te giudicare. È un giocatore di basket. E allora ricordi The Flu Game. Ricordi l’ostinazione di Bryon Russell dei Jazz. Ricordi The Shot.
Cosa te ne fai di Michael Jordan? Non puoi odiarlo, non puoi farlo tuo. Non è più un idolo, ormai. La sua immagine ne ha passate troppe nella tua mente. Tienilo lì, però. Non cancellarlo. Non far finta di non sentire il suo nome. È Michael Jordan. Quello che sai di lui è che non è arrivato fin là per raccomandazione. Sì, aveva un talento. Che non ha sprecato. Lo ha innaffiato di sudore. Ha cancellato “accontentarsi” dal suo vocabolario. Ha chiesto il meglio a sé e a chi aveva vicino. Ha vinto ben prima di infilarsi un solo anello al dito. Ha trovato il modo di esprimersi. E questo non ti è negato. Lo puoi fare anche tu. Anche tu puoi vivere cercando la tua vittoria. Che non è quella di Michael Jordan. Il suo nome sarà lì, a ricordartelo.
Vent’anni dopo torni in quel paese sulle Alpi del Trentino. Stavolta non con i genitori, con tua moglie. Cammina un po’ incerta, ma non ha bevuto troppi spritz. Anzi, nel suo stato non può proprio bere. Il piccolo Michele nascerà fra un paio di mesi. Di tre edicole, in quel paese ne è rimasta una. Deve andare dritta al primo colpo, stavolta… Ce l’hanno. È un numero monografico su Michael Jordan.
Sorridi. Lo prendi.
– Avete anche Cose di casa?
Pubblicato per la prima volta il 17 febbraio 2017
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